Il Coronavirus – con relativo nefasto divieto della giusta varietà della vita individuale, obbligo generale di obbedienza al lugubre comando della segregazione volontaria, e imposizione forzata di una specie di «Chinese way of life», con tanto di mascherina e guantini (come in effetti vedevo girare per le piazze di Roma i turisti cinesi ben prima del Coronavirus) – mi ha colto per pura sorte mentre ero in campagna. Felice sorte, perché qui in campagna non rischio contatti «sociali», se non con i miei due cani, Pozzo e Nina – meravigliosi setter gordon, silenziosi e guardinghi per razza e carattere; e il gatto Robertino, di suo poco espansivo, e assai riservato per egoismo felino.
Nella casa abita sempre, tutto l’anno, l’uomo con cui divido la vita. L’ha scelto da tempo; da tempo, intendo dire, lui s’è «distanziato», anticipando uno stile di vita separata per necessità propria, interiore.
In questa casa, più sua, che mia, ho «una stanza tutta per me» – con tanto di bow-window che aggetta sul prato, e sul pozzo circondato da cespugli di rose selvatiche e rose canine, e rosmarini. Sul fondo una parete di eucalipti – frangivento, li chiamano qui – obbediscono al loro nome, e tengono la casa al riparo dei vortici d’aria. Tra i loro rami intravedo l’acqua della laguna, lontana. Ma ne sento la presenza nella luce liquida, una luce speciale, propria delle paludi e dei paduli, degli acquitrini e degli stagni. Con bagliori di grigio, e un velo di umido che rende morbidi, porosi i colori.
A poca distanza una riserva naturale accoglie e protegge varie specie di aironi e fenicotteri – bianchi, grigi, rosa. Da qualche settimana, avendo tagliato l’erba nel campo, vengono qui la mattina a rifocillarsi di non so quale buon cibo sia rimasto tra le zolle. Vedo però che becchettano con alacrità. Per lo più sono schiere di picchi e pennini e avicelle, egrette e garzette.
Non tutti i loro nomi conosco, e mi piace in realtà ammirarli nella loro estraneità, nella loro altera e altra bellezza di creature che appartengono a un mondo che non è il mio, anche se conviviamo nello stesso habitat. Ascolto rapita i loro gutturali fraseggi, che mi riportano a una specie di alba del mondo, a una specie di aurora della lingua, di day-one del creato. Non c’entra con il gracchiare del corvo e della cornacchia, non somiglia al tubare delle tortore o dei colombi, né allo zirlo del tordo, né tantomeno al cinguettio del passero, al trillo dell’allodola, al gorgheggio dell’usignolo. È un suono primitivo, che rimanda a un’origine ancora impastata con l’inizio del mondo.
Nell’irreale «distanziamento sociale» – eufemismo, o disfemismo partorito da un linguaggio burocratico, che ben rivela come al servizio della politica la lingua vaneggi, vacilli, e tradisca la propria vocazione etica alla comunicazione – il silenzio s’è fatto ancora più vasto, e profondo. E il mare di verde, che si apre al mio sguardo al di là della «stanza tutta per me», mi offre in dono uno spazio naturale, in cui mi viene spontaneo riflettere sulla infinita generosità di una natura, che seppure in troppi modi violata, è ancora e di nuovo un riparo. E provo gratitudine.