Le altre «Cartoline dalla quarantena»:

E chi non ha il sonno dei giusti?
di Veronica Raimo
https://www.azione.ch/cultura/dettaglio/articolo/e-chi-non-ha-il-sonno-dei-giusti.html

Un piccolo pezzo di muro giallo
di Philippe Forest
https://www.azione.ch/cultura/dettaglio/articolo/un-piccolo-pezzo-di-muro-giallo.html

Dalla finestra
di Vinicio Capossela
https://www.azione.ch/cultura/dettaglio/articolo/dalla-finestra.html

Scendere a patti con il tempo
di Angelo Ferracuti
https://www.azione.ch/cultura/dettaglio/articolo/scendere-a-patti-con-il-tempo.html

Le nostre finestre sono diventate tappeti volanti
di Francesca Mannocchi
https://www.azione.ch/cultura/dettaglio/articolo/le-nostre-finestre-sono-diventate-tappeti-volanti.html

Oltre la siepe, la vita e l’Unheimliche
di Sandro Veronesi
https://www.azione.ch/cultura/dettaglio/articolo/oltre-la-siepe-la-vita-e-lunheimliche.html

Chiamiamoci come tanti barone Lamberto
di Nadia Terranova
https://www.azione.ch/cultura/dettaglio/articolo/chiamiamoci-come-tanti-barone-lamberto.html

Sul ponte sventola bandiera gialla
di Björn Larsson
https://www.azione.ch/cultura/dettaglio/articolo/sul-ponte-sventola-bandiera-gialla.html

La runner degli ulivi
di Lidia Ravera
https://www.azione.ch/cultura/dettaglio/articolo/la-runner-degli-ulivi.html

In attesa di quel cappuccino
di Paolo Di Stefano
https://www.azione.ch/cultura/dettaglio/articolo/in-attesa-di-quel-cappuccino.html

Isolati, ma non soli
di Luigi Forte
https://www.azione.ch/cultura/dettaglio/articolo/isolati-ma-non-soli.html

 

 

 


Dalla finestra

Cartoline dalla quarantena - Milano, siamo tutti all’angolo in questo momento, ma io ci sto da una ventina d’anni
/ 13.04.2020
di Vinicio Capossela

Sto all’angolo, su un incrocio vicino alla stazione centrale. Il pavé è solcato dai binari del tram, linea numero uno. Corre da sempre da un capo all’altro dell’oscurità. Corre nel buio come lanciato verso lo strike. La strada ora è libera. Solo le corse del numero uno la solcano a intermittenza.

Sono carrozze costruite nel 1928, così ben accessoriate, la lampadina, i sedili di legno lucido, le vetrate incorniciate dalla zigrinatura per i finestrini. I tram continuano a passare come a ricordarci del vivere civile. Il fatto che scorrono vuoti li rende quasi sacri. Sottratti all’uso, ma presenti a ricordare il vivere cittadino, la gentilezza, le buone maniere, una certa aristocrazia del passato. Il loro clacson che suona come un campanello di albergo notturno, il fanale a monocolo sul muso. Restano i tram a ricordarci della città.

Ora è arrivato uno strano camion, piuttosto alto e stretto. Un mezzo inconsueto. Ne sono scesi due uomini con tute antisettiche bianche, le mascherine. Hanno l’aria di dovere disinfestare qualcosa. Il loro strano mezzo passa un liquido sulle rotaie e le rende lucide, come quando è piovuto. Quando piove la strada diventa elegante come un vinile, ci si può pattinare sopra, è un nero da abito da sera, e poi quegli orologi che stanno ai polsi delle strade. Ma da un poco non ci si pattina più. Sono tre settimane. Vado a memoria.

L’orologio è fermo, sa di buone maniere dimenticate. Nella immobilità forzata degli uomini gli oggetti diventano animistici. L’arredamento urbano, non più nascosto dal traffico, viene fuori nelle sue miserie e nelle nobiltà. Gli orologi fermi sembrano adeguarsi a questa dilatazione del tempo. Ne vedo pochi e ognuno segna un orario diverso. I tagli alla sanità che tanto si stanno facendo sentire devono avere riguardato anche gli orologi da polso delle strade. La decadenza del vivere civile inizia con l’abbandono degli orologi e delle cabine del telefono e finisce con la mancanza dei posti in rianimazione, con la mancanza di mascherine e camici per i medici. Con la mancanza di un posto letto che porta a sostituire la carità cristiana reclamata dalle campane, con la selezione darwiniana in atto.

Da qualche giorno le campane hanno preso a suonare a mezzogiorno, come per infondere coraggio. Hanno suonato anche a morto per parecchi pomeriggi. Il tram numero uno è già passato altre tre volte. Infonde ancora più conforto delle campane. Sembra dire nella sua non utilità che ci si può permettere di farlo circolare per ricordarci che si tornerà a prenderlo.

All’angolo di fronte alla finestra c’è un piccolo supermercato. Un Pam di quelli con solo prodotti preconfezionati. La fila inizia dalla mattina. Ci sarebbe da fotografare l’angolo alla stessa ora, come nel bel film Smoke, con Harvey Keitel. Si vedrebbero file di persone ogni giorno un poco differenti. La maggior parte ha la mascherina e viene difficile riconoscerli. Anche se sono del quartiere e ci si incrocia da anni, improvvisamente si è diventati non riconoscibili. Potremmo essere tutti adatti alla rapina del supermercato e invece mai la gente è apparsa così docile e obbediente. Non si sa se per senso civico o per paura. Di fronte al Pam è la farmacia. C’è una piccola fila anche lì fuori. Dall’altro spicchio dell’angolo la ferramenta. Ci sono entrato tre settimane fa per comprare una lampadina. Stavano mettendo della plastica trasparente tra il banco e il pubblico. E avevano attaccato cartelli in una ventina di alfabeti diversi, tenere la distanza di un metro. Non avrei mai pensato che potessero essere necessari tanti alfabeti.

E poi ci sono i cani. Dietro i loro padroni. I cani non hanno cambiato abitudini. I padroni cercano di guadagnare il marciapiede libero.C’è stato un notevole aumento di uccelli e i loro versi si sono resi udibili. Forse sono aumentati o forse è per via del silenzio. Il silenzio è un fatto totalmente insolito.

Ecco un altro tram è passato. Vuoto e illuminato. Mi sono impigliato in questo quartiere molti anni fa e ci staziono moderatamente. L’ho scelto perché mi sembrava adatto alle assenze. Ora è diventato un teatro dell’assenza. La voce di Annibal Troilo si accomoda su tutto quello che non c’è. Canta il suo nocturno al quartiere… «Mi dissero una volta che me ne ero andato, ma quando, però quando? Se sempre sto tornando, qui dove anche le stelle trattenendomi come mani amiche mi dicono …fermati qua... fermati qua».

Da quanto desideravo un quartiere me lo sono inventato qui in questo luogo d’assenza.Ora le musiche d’assenza suonano ancora più adatte. Siamo tutti esuli. Tanti anni fa mi capitò di passeggiare col poeta Gregory Corso. Nel cuore della notte si mise a urlare per le strade alle case silenti... dove siete tutti ? Perché dormite? Lo stesso faceva Chinaski dando calci alle macchine. Volevano svegliare questo mondo addormentato. Un mondo dove solo le vetrine dei negozi di marca restano a illuminare le strade. La gente sparita da un pezzo.

Le restrizioni imposte dal virus sembrano segnare con l’evidenziatore il nostro vivere a distanza, distanza mediata dalla tecnologia. Il nostro vivere serviti a domicilio. La realtà è che non c’è niente di così innaturale in questa situazione. Sembra solo il nostro usuale modo di vivere portato alle estreme conseguenze. L’individualismo collettivo si è fatto individualità e separazione, ma in modo conforme alla linea intrapresa. La strada ora è vuota, sì, ma di assenze di lungo corso.

Salvatore, il senza tetto continua a venire al suo posto. Non ci sono più passanti per la sua elemosina, ma viene a mettersi al solito posto. Lo vedo dalla finestra. «Allora tutti a cuccia! Vi hanno messo la museruola e ora tutti a cuccia dovete stare!». Ride con la sua solita causticità verso il sistema. In tutta la strada è il più libero. I vagabondi ancora percorrono i loro passi. Ecco passare «il profeta». Ha una aria mediorentale. Parla da solo ma con un tono magniloquente. Sembra Gesù al sinedrio. Cammina a piedi scalzi. Passano diversi ragazzi di colore in bicicletta con le loro scatole termiche. Il mondo della consegna a casa ha fatto un ulteriore passo avanti.

Oggi sarà il primo aprile. Se penso a un pesce d’aprile penso al più grosso: la balena. C’è un film di Béla Tarr, Le armonie di Werckmeister. Lì c’è una grande balena imbalsamata che arriva su un rimorchio, condotta da un nano dell’apocalisse. La sua venuta provoca la cessazione dell’ordine. Libera il tabù della violenza. L’ordine viene ripristinato a mezzo dell’esercito. Col ripristino dell’ordine viene il silenzio, quello delle ossa imbiancate. Delle strade deserte, dell’ordine della dittatura.

Mi viene in mente oggi che a Budapest profittando dell’emergenza sanitaria sono state promulgate disposizioni da colpo di stato.

Ogni occupazione ha avuto come prima conseguenza il silenzio e le strade deserte. Non è difficile sentirlo nell’aria. Eppure c’è anche un’attenzione diversa. Si inizia a fare caso a tutto. A fare i conti con tutto. Ci si concede il lusso della profondità. Lo spazio ci si è ristretto attorno. Non resta che scavare in profondità. Gli uomini con la tuta ora hanno aperto un bocchettone. Era nascosto sotto la strada. L’acqua ha iniziato a scorrere potente. Hanno fatto il pieno. Con le tute e pieni di precauzioni, ma tutti noi stiamo aprendo i rubinetti. Le cose interrate affluiscono in noi con forza. Non è tempo da ammazzare questo. Ha un prezzo troppo alto per sprecarlo. Tutto questo getto interno va convogliato, perché non si traduca in paralisi. È energia in potenza, come quando la molla si mette sotto carica. Gli uomini in tuta fuori hanno fatto il pieno. Proseguono il loro giro a pulire binari.

La strada resta vuota e silente. Quello che conta è sempre quello che non si vede. È li che avviene l’essenziale. Il vederci tutti adottare comportamenti apparentemente ridicoli avviene perché si cerca di difendersi da qualcosa che non si vede. Di visibile ci sono i nostri limiti, i nuovi gesti, i nuovi goffi accessori. Di visibile i proclami, l’infodemia che ha travolto ogni minuto delle nostre nuove esistenze. Di invisibili ci sono le manovre, il riassestarsi del potere. I nuovi territori di controllo che si aprono. Di visibile il volto dei governanti, di invisibile il capitale che li governa e scarica loro la responsabilità. Di visibile c’è l’uomo che si è messo a correre nella strada, di invisibile la moria nelle case di riposo e i responsabili di quella moria. Di visibile ci sono le finestre, di invisibili le violenze domestiche. Di visibile c’è la sicurezza, il bisogno della sicurezza. Di invisibile la libertà. Di invisibile ci sono gli spazi interiori che si aprono nel silenzio.

Ho cercato di descrivere quel che si vede da questa finestra, ma quel che davvero conta è quel che non si vede. Di quello soprattutto occorre avere cura. La stessa che hanno di noi questi tram che continuano a passare. Non invano.