Prima della clausura, quando uscivo da casa, vedevo soprattutto persone e automobili e andavo di fretta, i rumori erano i rombi dei motori, lo stridio dei freni, il suono dei clacson, quei rumori di sottofondo che m’impedivano di ascoltare il canto soave degli uccelli, la musica o le voci dai balconi delle case che sento ora. Tutti vivevamo dentro quel rumore, che cancellava la natura e la profondità dei sensi nella via dove in questi giorni passeggio con Buck, il mio boxer londoniano, un’estensione della mia libertà in tempi cupi di divieti. Adesso però tutto sembra più prossimo. Mi sono accorto che c’è un piccolo bosco fitto di sempreverdi rigogliosi che non guardavo mai, ora distinguo i faggi dagli abeti e dai lecci. E dalla mia finestra in questi giorni scorgo di sotto un ciliegio fiorito, che continua solitario la sua vita naturale, e non sa niente dei contagi, dei morti, della gente intubata nei reparti di terapia intensiva. I suoi fiori sono della tonalità del rosa in piccoli grappoli e sbocciano come ogni primavera.
Gli incontri per strada sono più intensi, seppure a distanza, protetti dalle mascherine, gente con la quale non ho mai parlato mi saluta, vuole dirmi qualcosa, un uomo che incontro a passeggio da almeno sei anni, un paio di giorni fa davanti ai bidoncini della raccolta differenziata, un’altra meta molto ambita, mi ha detto che ha letto il mio ultimo libro, «adesso mi ronzano molte cose in testa, un giorno ne parliamo» gli è venuto da dire sibillino. Forse si è fatto strane idee sul mio conto. Prima non avevamo mai scambiato una parola.
Se faccio mente locale, comprendo che da 50 giorni non vado a passeggiare nella piazza principale e da altrettanti diserto il mio ufficio, dove mi reco da 35 anni, già la fine della via per me è l’ignoto, la notte scendo a fumare il sigaro e mi pare di vagare in un mondo disabitato, l’ultimo volo per Manaus è un ricordo lontano, mi dico che appena tutto questo finirà atterrerò di nuovo in Amazzonia, negli spazi infiniti delle foreste pluviali, per un reporter è dura la stanzialità. Adesso devo accontentarmi delle passeggiate con mia moglie Alessandra che sembrano gite avventurose, intrepide, vertiginose, spingersi per esempio verso la Clinica privata Villa Verde, non più di duecento metri dal nostro civico, chissà come sarà tutto oltre la strada? Mentre in casa s’inganna il tempo, si fa melina della vita, «la nostra separazione era destinata a durare e dovevamo imparare a scendere a patti con il tempo,» come ha scritto ne La peste Albert Camus.
Quando mi allontano, sento quasi una fitta allo stomaco, un piccolo senso di spaesamento, arrivo giusto alla fine del muraglione, dove ci sono i manifesti funebri. Adesso si muore soli, senza la carezza di una persona cara, senza poter guardare negli occhi un figlio, un amico, un’amante.
La settimana scorsa nella via per due volte è arrivata l’ambulanza. Sono scesi infermieri e portantini, medici con le tute verdi, i volti seriosi dietro le mascherine, «sono venuti a prendere una persona» ho detto a mia moglie quando sono rientrato. In quel momento molti guardavano morbosi dalle finestre, anch’io mi sono fermato, temporeggiavo, non riuscivo ad aprire il portone del palazzo, a girare la chiave. Sono sicuro che molti avranno pensato che sarebbero potuti tornare. Mi è subito venuto in mente il vecchio signore del piano di sotto, perché l’angoscia bisogna spostarla da qualche parte, poi ho pensato che potevano venire anche a prendere me, ma è durato pochissimo, il tempo di salire le scale.