La prima volta che andai in Scozia in nave fu nel 1986, prima dell’apertura delle frontiere europee. Al nostro arrivo, al termine di tre giorni sfiancanti attraverso il Mare del Nord, non fummo legittimati a scendere a terra prima di avere ricevuto la visita della dogana marittima. Poiché all’epoca non esistevano i cellulari, per segnalare la propria presenza si doveva issare una bandiera gialla. Quella bandiera gialla era stata imposta a tutte le navi del mondo nel XIX secolo. Ciò era dovuto a un’imbarcazione che, giungendo a Marsiglia, aveva infranto le regole della quarantena, portando la peste in città. Risultato: centomila morti. Anche se oggi abbiamo il VHF e il telefono, questa bandiera gialla è tuttora in uso in numerosi paesi del mondo.
Dalla finestra del mio piccolo studio di Råå, in Svezia, dove mi sono ritirato dal mondo, vedo una striscia di mare e oltre, la Danimarca, che ha chiuso le frontiere con gli altri Paesi, Svezia compresa. Non posso dunque più andare a visitare mia figlia che abita proprio dall’altra parte dell’Öresund. Anche se la Svezia ha scelto una via meno restrittiva rispetto agli altri Paesi, appellandosi alla responsabilità individuale di ognuno, piuttosto che ai divieti e alle sanzioni, è come se vivessimo in un mondo in cui la bandiera gialla è issata ovunque, davanti a tutte le finestre, come se la gente aspettasse sulla baia che qualcuno le accordasse la libera pratica. Ma chi? E quando?
A Fraserburgh, in Scozia, dovemmo attendere per alcune ore l’arrivo dei doganieri. Ma quanto tempo dobbiamo aspettare ancora per ritrovare la nostra libertà, ciò che ne resta?
Sono rientrato dall’Italia, il mio secondo Paese, cinque settimane or sono con l’impressione di «averla scampata», pur avendo anche dei rimorsi per avere lasciato indietro la mia compagna; sono partito poco prima che il virus colpisse duramente il Nord dell’Italia. Dopo essere rientrato, mi sono messo in autoquarantena per due settimane, il tempo di sapere che non ero infettato. Ma proprio quando, di principio, potevo ricominciare a vivere lui, il virus, se n’è fregato della sospensione dei voli e ha preso comunque la rotta per la Svezia.
Poiché a sessantasei anni faccio parte del gruppo a rischio, ho dunque proseguito la mia quarantena. So di essere privilegiato: posso scrivere e leggere, posso uscire a prendere un po’ di sole in riva al mare, posso montare in bicicletta e andare a passare un po’ di tempo in barca... evitando i wc dello yacht club e mantenendo le distanze dagli altri membri del club.
Ma, prima di ogni cosa, cerco di mettere un poco di ordine in casa. Poco prima di morire Leonard Cohen in un’intervista dichiarò: «A un certo punto, se hai ancora le rotelle a posto e non sei confrontato con sfide economiche importanti, hai la possibilità di mettere in ordine la tua casa. Mettere in ordine la casa, se riesci a farlo, è una delle attività più confortevoli, e i suoi benefici sono incalcolabili». Cohen ha assolutamente ragione. Sapere di avere la casa in ordine dà tranquillità di spirito, una sensazione di pace. Ho dunque fatto ordine tra le mie carte, gettando nell’immondizia chili di scartoffie. Ho regolato questioni di amministrazione personale. Ma soprattutto, ho scritto il mio testamento, in cui cerco di spiegare dettagliatamente ciò che sarà dei miei affari e dei miei possedimenti, affinché mia figlia, che un giorno erediterà tutto, oltre ad affrontare il dolore, non si ritrovi a dovere passare settimane a raccapezzarsi.
Si potrà obiettare dicendo che questo non è né credere alla vita, né portare speranza o preparare la propria morte. Ma come possiamo rimproverare ai nostri politici e al capitalismo sfrenato di non guardare oltre le prossime elezioni e il prossimo bilancio, se ognuno di noi non fa ciò che può per aiutare quelli che verranno dopo? Come possiamo accusare uomini e donne di ignorare le minacce del cambiamento climatico se ciascuno di noi non si prende le proprie responsabilità? È troppo comodo dare sempre la colpa agli altri.