«L’uomo il cui nome è pronunciato resta in vita»: Gianni Rodari, in C’era due volte il barone Lamberto, mette in scena un personaggio che prende molto sul serio questa frase. Il plurinovantenne Lamberto vive su un’isola nel lago d’Orta, un’isola tutta sua, perché è ricco, molto ricco, visto che ha ventiquattro banche in tutto il mondo. Ha anche ventiquattro malattie, perché con i soldi può comprare tutto tranne gli antidoti alla morte, all’invecchiamento e alla paura, può però pagare delle persone perché pronuncino ininterrottamente il suo nome, Lamberto Lamberto Lamberto… Notte e giorno, quei bisbigli lo terranno in vita. E noi, che non siamo anaffettivi come il barone né abbiamo le sue disponibilità economiche, come possiamo chiamarci e tenerci in vita in questo periodo?
Durante i primi giorni di isolamento, nei balconi italiani, alle sei del pomeriggio, si è diffusa l’abitudine di affacciarsi e cantare. Si sono scelte canzoni che ci facessero sentire parte di una comunità, come l’inno nazionale oppure Azzurro, con quel pomeriggio lungo, troppo lungo, e l’evasione a portata di mano con il treno dei desideri. Oppure ancora Ma il cielo è sempre più blu, che ricordava a chi ha a disposizione solo uno spicchio di firmamento, magari nel cavedio interno al palazzo, che quello spicchio è lo stesso per tutti.
Abbiamo cominciato ad affacciarci quando le lancette spaccavano l’orologio in due, come un segnale combinato; i più esplicitamente felici erano gli anziani, quelli con il sorriso più sornione i quaranta-cinquantenni, che nascondevano il caldo sollievo di sentirsi parte di un gioco dietro l’aria di chi è stato strappato di malavoglia a qualcosa di più serioso. E poi, i bambini. Uno fa i compiti al pomeriggio, approfittando della prima luce di primavera. Il padre e la madre hanno spostato un tavolo in balcone, e ogni tanto gli fanno compagnia, con una tisana o un bicchiere di vino, a seconda dell’orario. Il bambino suona la chitarra, ed è dolce sentirlo strimpellare. Alle sei si alzava dalla sedia e si scatenava, e quando i ventenni della casa di fronte hanno cominciato a fare sul serio con le casse e l’amplificazione era lui a cantare più forte e prendere gli applausi più scroscianti. Sua è stata l’idea di appendere un cartello con su scritto: #scriviiltuonome. Così, sui nostri balconi sono comparsi i nomi delle persone che li abitano. In un tempo in cui non puoi stringere la mano a qualcuno che non conosci, abbiamo trovato un altro modo per chiamarci.
La pioggia della scorsa settimana ha lavato via quei fogli scritti a pennarello, ma i nomi si sono fissati nella memoria. Adesso, quando ci sbirciamo da un balcone all’altro mentre stendiamo i panni o innaffiamo le piante o respiriamo un minuto d’aria, oltre a salutarci con la mano e un sorriso, possiamo pronunciare i nostri nomi, a voce alta o dentro la testa. È da un po’ che non cantiamo, ma il bambino è sempre lì a fare i compiti, con la sua faccia buffa e simpatica, come fosse uscito da un libro di Rodari pure lui.