Mi sono chiesta spesso in queste settimane cosa avrebbe scritto Pierluigi Cappello di quello che stiamo vivendo.
Friuliano, poeta, mancato nel 2017 a cinquant’anni. Un incidente stradale da giovane gli causò la recisione del midollo spinale e nessuna delle operazioni cui si sottopose riuscì a cambiare la sua condizione di immobilità.In una delle sue poesie Cappello scrive: «Non si tratta di riempire, si tratta di far parlare il vuoto». E lui c’era riuscito in versi, facendo diventare col tempo «il letto un tappeto volante». Da un mese il midollo spinale della nostra società è reciso e le nostre finestre sono diventate tappeti volanti. I risparmiati di noi, i non toccati dal virus, sono seduti di fronte alle finestre in un tempo immobile, con l’ingrato compito di scoprire un mondo nuovo, e fare la mappa del mondo che si spalanca quando la porta si chiude e noi restiamo dentro. Dovessi parafrasare Cappello direi che oggi non si tratta di riempire, si tratta di trasformare il dentro in fuori.
Il silenzio che ci circonda è la voce delle nostre vulnerabilità, siamo spaesati e distratti. E riluttanti ad ascoltare questa voce, perché tra le cose che ci sono mancate c’è l’educazione a dirsi fragili.Ci hanno insegnato i codici della buona educazione, la mano davanti alla bocca di fronte a uno starnuto, ci hanno insegnato a dire grazie, prego e per favore. Ci hanno insegnato a voler eccellere, a desiderare di essere i primi della classe. I più fortunati sono stati cresciuti senza rabbia e nel rispetto degli altri, ci è stato detto di tendere la mano a chi ha bisogno, di non ignorare le ingiustizie. Ma nessuno ci ha insegnato a cadere. Nessuno ci ha insegnato a dire: mi sento perso.
E ora siamo smarriti in un tempo nostro, disorientati nel nostro spazio. Esposti, nudi, e smascherati. La fragilità che non ci hanno insegnato ad amare e maneggiare, ora è nuda. E ci imbarazza.
È una forza sbriciolata fitta fitta sulla tovaglia di un tavolo spopolato dalla nostra vita com’era e popolato di fantasmi. C’è la nostra identità, presunta marmorea fino a ieri, che oggi si scopre trasparente. E ora che il tempo è un incantesimo di istanti invariati, mi trovo seduta sulla poltrona verde che mi ha visto bambina e poi donna e guardo fuori dalla finestra, cerco il tappeto volante, guardo le luci degli altri, che si accendono all’imbrunire, sento i piedi dei figli degli altri, costretti a correre in casa, perché è precluso loro il mondo esterno. Sento il rumore di fondo del telegiornale, e gli elicotteri che passano più di prima sulle nostre teste e sento il rumore delle ambulanze.
Nuove forse no, forse ora sono in ascolto di quello che prima ignoravo.Come il silenzio mentre parla della mia fragilità.Una malattia è sempre fare un patto con la rabbia. E la forma della rabbia si esprime in parole semplici, violente. Perché a me? Perché ha scelto me e non un altro? Frase ingiusta, come talvolta lo sono le cose umane. Ci penso da tre anni, da quando mi hanno diagnosticato una malattia degenerativa. Da quando l’accidente, l’imponderabilità del male è entrata nel mio presente e in ogni giorno dei miei giorni a venire. Oggi questo «Perché proprio a me?», è diventato un «Perché proprio a noi?».
Che non ha ancora risposte convincenti, o forse ne ha una per ognuno.Una malattia che non colpisce un singolo, ma ci colpisce tutti. I sani e i malati, e ci costringe a isolarci per riconoscerci comunità. Tra febbraio e marzo sono stata in Libia e nelle isole greche di Lesbos e Samos, dove 44 mila persone migranti sono bloccate dalle politiche di contenimento europee.
Quando sono atterrata a Roma, il nove marzo, una colonna di voli sul tabellone all’aeroporto di Fiumicino era rossa: cancellati. Mascherine e guanti ovunque. Da quando sono tornata da questi viaggi, che probabilmente saranno gli ultimi per molto tempo, mio figlio Pietro ha smesso di andare a scuola, ci mettiamo in fila per fare la spesa, manteniamo una distanza di un metro e più nelle botteghe e anche se incidentalmente incontriamo il vicino di casa al portone, evitiamo l’ascensore e indossiamo guanti e mascherina anche per andare a buttare l’immondizia, laviamo le mani col disinfettante, abbiamo imparato a parlare a lungo con i nostri amici lontani.Da quando sono tornata, il 9 marzo scorso, mio zio è risultato positivo al Covid19.
Da undici giorni è in terapia intensiva. Ha settant’anni, vive con sua moglie – mia zia – in un piccolo paese alle porte di Roma, uno di quei paesi tipici dell’Italia centrale di pendolari, una vita fatta di bar e piccole botteghe, orti e parenti che si parlano dai balconi.Tutti si conoscono e il medico di base conosce tutti per nome. «Qui il Covid non arriverà», avranno di sicuro pensato tutti, peccando della hybris dei protetti. Troppo al sicuro, troppo custodita la tranquillità della nostra dimora per essere incrinata dall’ignoto. Troppo lontano quel virus, per toccare proprio noi. Eppure il Covid è arrivato. Perché è così: imprevedibile e subdolo. Perché così sono le nostre certezze ora, le certezze che custodivamo: indifese, disarmate. Al quinto giorno di febbre mio zio ha chiamato il suo medico di base, che allarmato e preoccupato, ha richiesto un’ambulanza per un sospetto caso Covid, attivando un protocollo di sicurezza. Significa che a tarda sera di un sabato che si affaccia alla primavera, arriva in casa di due pensionati una squadra di medici e infermieri con dispositivi di sicurezza anticontagio, tute bianche li coprono fino ai piedi, una maschera a proteggere il volto.
Un’astronave da un’altra dimensione e una barella che porta via un uomo con la febbre, saluta sua moglie e sale sull’ambulanza con i suoi piedi, scendendo le scale della casa sudata per gli anni della pensione dopo una vita di lavoro e tra un colpo di tosse e l’altro che sussurra solo: pensa a nostra figlia, pensa a Sara. La nipote. Il domani, il futuro.A che serve il futuro se non ci salva? Mi ha detto un’amica cara in questi giorni.A che serve il futuro se non ci salva? Il nostro futuro, i nostri figli. I nostri desideri, certo. Ma anche il dialogo con la paura. Sono le 22.30 di sabato 14 marzo. Alle cinque della mattina dopo mio zio era uno dei 29 ricoverati di allora in terapia intensiva della regione Lazio, la regione in cui viviamo tutti, sebbene in comuni diversi. Poche ore e si passa dalla febbre alta alla tosse, dalla tosse al fiato corto, dal medico di base al protocollo Covid, dalla penicillina al tampone e il tampone passa al test.Positivo. Polmonite acuta. Sedazione e poi intubato.
In uno stato di incoscienza indotta e senza tempo.
E fin qui la parte medica. Questo virus che si muove in mezzo a noi malgrado noi ha la forma dell’impossibilità di accudire chi amiamo. Impensabile per chi ha fatto – come la nostra cultura, le nostre tradizioni – della cura al malato e il congedo dai vivi una parte fondativa dell’identità familiare, dunque collettiva, e individuale. Il male cammina nelle nostre giornate, abita i nostri amati eppure ci è inaccessibile, ce li rende inaccessibili.
Qual è la cosa peggiore? chiedo a mia cugina. Non potergli tenere la mano, dirgli ad un orecchio, anche se sedato: papà, ti aspetto a casa. Mia zia, sua figlia e il resto della loro famiglia sono costretti da quella notte di quasi primavera a isolamento domiciliare, in due domicili diversi. Significa non sostenere il malato e non sostenere i vivi.Non possono andare in ospedale, non possono telefonare a nessuno per avere aggiornamenti.Trascorrono le giornate in attesa di una telefonata, il bollettino quotidiano che i medici dell’ospedale con devozione fanno per ogni paziente positivo al Covid.
Sostituendosi alle famiglie. Con il corpo, il loro, al posto del nostro sulla soglia del dolore a fare da tramite di un accudimento tra sconosciuti. Da undici giorni la telefonata ha un unico contenuto, un solo tono, attento ma ridigo: è stabile ma grave. Ci sono giorni in cui ci concentriamo tutti sulla parola stabile.E giorni in cui vediamo solo il peso solenne della parola grave.Il tempo dell’attesa si consuma in telefonate sempre uguali, come le nostre giornate.
«Come state, avete sintomi?» – chiedo ai miei cari, per essere certa che non siano stati contagiati, sapendo però che siamo di nuovo di fronte a un paradosso. I parenti di un positivo vengono isolati ma non testati, finché non sono sintomatici. Finché – dicono i medici – non hanno febbre e alta e da non confondersi con l’influenza stagionale. «No, nessun sintomo», risponde mia cugina. Che nella vita lavora a scuola con un contratto precario, mentre suo marito lavora in aeroporto anche lui con un contratto precario e mentre aspettano notizie dall’ospedale si chiedono già, come tanti, se saranno le prossime vittime di questo contagio, quelle economiche. La seconda domanda ogni giorno è: Come stai? «Sono bloccata in un buco nero scandito da ansia e inerzia», mi ha detto martedì scorso.
La nostra educazione ci ha liberate delle frasi di circostanza, sappiamo che nei silenzi delle telefonate ci sono sorrisi. Li lasciamo brillare nel muto di quel nero. Cerchiamo di affrancare l’attesa dalla speranza, cerchiamo di riempirla di lucidità prima che diventi rabbia. In poco meno di un mese nel nostro Paese l’entusiasmo della riscoperta si è talvolta trasformato in grida verso gli incolpevoli e delazione.Dagli stessi balconi da cui si cantava l’inno nazionale nei primi dieci giorni di quarantena, oggi qualcuno grida contro chi corre in strada, i vicini si spiano dalla finestra, in cerca dell’untore, del responsabile, di uno qualsiasi cui dare la colpa del virus, del contagio, della paura, dell’ignoto, di un futuro che ha il colore tetro dell’incertezza.
A che serve il futuro se non ci salva? Stamattina sono uscita e ho citofonato a mia cugina. Mi sono aggrappata alla ringhiera e lei mi parlava dal balcone della cameretta di Sara, sua figlia.Avevo voglia di liberare i sorrisi dagli angoli muti delle nostre telefonate.Mentre mi salutava ha incrociato le braccia, la destra sopra la sinistra e le ha incrociate battendole sul petto.Era la cosa più simile a un abbraccio, forse se chiudo gli occhi l’abbraccio più stretto che io abbia ricevuto.
Mio zio, suo padre, è stato portato via da un’astronave anticontagio in un giorno di quasi primavera, in un paese con le bare accatastate e i fiorai chiusi e i cimiteri senza fiori. Lo aspettiamo seduti accanto al nostro dolore recluso.E un dolore, se lo ingabbi, non riesce a diventare identità, non si può processare. E resta lì come una scoria che non si consuma, né col tempo, né con la natura.Una scoria che resiste, innaturale come un’infelicità non vissuta. Come le gemme di questa primavera che aspettano di sbocciare, mentre le curiamo in silenzio sui tappeti volanti delle nostre case.