Nessun uomo è un'isola

Cartoline dalla quarantena - Tel Aviv, Anche dal ventunesimo piano di un grattacielo in Israele il mondo sembra essersi fermato
/ 27.04.2020
di Abraham B. Yehoshua

Nessun uomo è un’isola
Completo in se stesso
Ogni uomo è parte della terra
[...]
E perciò non chiederti
Per chi suona la campana
Suona per te

«Nessun uomo è un’isola» scriveva il poeta inglese del XVII secolo John Donne, ed Ernest Hemingway scelse questa incredibile poesia come motto per il suo libro Per chi suona la campana che tratta della solidarietà in un frangente di pericolo.

Dalle finestre del mio appartamento situato al ventunesimo piano intravedo il blu intenso del Mediterraneo intervallato dai moderni grattacieli di Tel Aviv. Dal mio punto di osservazione posso confermare che il lockdown serrato che il governo israeliano ha imposto ai cittadini durante la festività di Pesach, la Pasqua ebraica, viene effettivamente rispettato. Le vie sono deserte e nei parchi passeggiano solo persone per conto proprio. Noi israeliani siamo abituati una volta all’anno a un giorno silenzioso, lo Yom Kippur, nel quale sono rare le automobili che circolano e le persone possono camminare con sicurezza in mezzo alla strada. Tuttavia i bambini che scorrazzano in bicicletta e sugli skateboard, così come i fedeli che camminano in direzione delle sinagoghe per la preghiera, rendono persino il giorno di Kippur molto più chiassoso e affollato rispetto a questi del lockdown abbattutosi su di noi proprio durante una delle festività a carattere maggiormente familiare.

Mentre dal terrazzo osservo le vie deserte di Tel Aviv so che anche quelle italiane, inglesi, tedesche e francesi lo sono altrettanto, così come sono desolate le strade di New York. Io sono un israeliano di 83 anni, nato alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale e, dopo aver vissuto da bambino l’assedio di Gerusalemme, ho preso parte a non poche difficili guerre nel mio paese. Tuttavia si è trattato sempre di imposizioni ed emergenze che percepivo quali profondamente connesse al mio essere ebreo, a questa «identità particolare» o, come siamo soliti definirlo, al «destino ebraico». Questa volta invece la sensazione è diversa, poiché siamo soci a pari diritti del destino del resto dell’umanità e veniamo misurati e giudicati per le nostre reazioni al virus con gli stessi criteri con cui vengono misurati gli altri paesi. Non siamo un’isola a sé, come ci siamo sentiti tante volte, bensì parte del grande continente umano.

Non so quando né come sia nato il virus Corona che avvelena la nostra vita. Sono certo che quando verranno realizzati film che rappresenteranno cinematograficamente questo difficile periodo, un regista scaltro girerà una scena che riproduce il vicolo cinese nel quale evidentemente hanno macellato il pipistrello, con o senza un altro animale, per poi cuocerlo e mangiarlo, dando vita al virus maledetto. Ma io mi permetto di dire che non si tratta di un caso se il virus Corona è nato dalla nostro ossessivo ed eccessivo occuparci di cibo. Ogni volta che accendo la televisione mi imbatto in programmi di cucina di un tipo o di un altro, o sono spettatore di viaggi di turisti curiosi che sostano davanti a stand di cibi esotici in giro per il mondo. Il cibo e la cucina hanno conquistato la centralità che prima apparteneva ai contenuti di letteratura e di teatro, di musica e di cultura, confinando questi ultimi ai margini. Viene da chiedersi se il Coronavirus non ci sta portando un messaggio di avvertimento riguardo alla nostra eccessiva passione per cibi nuovi e originali, per arditi esperimenti gastronomici? Beh, i giornalisti del settore economico prevedono già per il prossimo futuro un quadro di disoccupazione a cominciare proprio dal settore della ristorazione.

Ma può essere che io tragga conclusioni inutili e prive di fondamento. Di tanto in tanto i giornalisti si rivolgono a me per ottenere un’intervista, una consolazione, o una previsione in merito alla difficile situazione nella quale ci troviamo, ma io cerco di evitare di nutrire le fila di studiosi, filosofi, scienziati, medici, scrittori e politici che scrivono articoli e invadono i media. Benché un simile profondo sconvolgimento della condizione umana non possa che sedurre le persone come me, abituate a presenziare nella pubblica arena, facendo sentire la propria voce, ammonendo, facendo previsioni o minacciando, quando sto per pronunciarmi mi rammento delle parole del profeta Amos: «Perciò il prudente in questo tempo tacerà, perché sarà un tempo di calamità». (Amos 5,13)

Nelle ultime settimane i media menzionano il romanzo La peste di Albert Camus, pubblicato nel 1947, dove viene presentato l’orrore della Seconda Guerra Mondiale attraverso il racconto allegorico della furia con la quale un’epidemia si è propagata nella città algerina di Orano. Questo romanzo faceva parte del programma del mio corso di Letteratura all’ombra della Seconda Guerra Mondiale che ho tenuto tante volte all’università, motivo per cui lo conosco bene. In generale questo libro non mi piace poiché è scritto in modo molto arido, e la trama e i personaggi sono schematici e non sono fonte di ispirazione.

Anche Jean Paul Sartre, amico di Camus, si è stupito del fatto che egli abbia ritenuto giusto trasformare i tedeschi in batteri e, così facendo, annullare la drammatica lotta etica che ha caratterizzato la Seconda Guerra Mondiale. Tuttavia, nonostante fossi cosciente della debolezza letteraria del romanzo, sono tornato a studiarmelo percependone la rilevanza in un frangente come questo, quando qualcosa di complesso, incomprensibile e impossibile da dominare, qualcosa di assurdo, cala improvvisamente sulla società umana colpendola con immensa crudeltà. Proprio il fatto di affrontare qualcosa di non razionale (componente quest’ultima che faceva parte anche della condotta nazista nella Seconda Guerra Mondiale) impone un certo tipo di reazione che non è solo razionale, bensì contiene anche una certa misura di solidarietà.

È questo che avevo cercato di chiarire ai miei studenti nell’individuare quale dei sette personaggi del romanzo sopravvive all’epidemia e chi, al contrario, si ammala e muore. A una verifica sembrerebbe di poter affermare che i meccanismi di difesa dei personaggi che avevano preteso di individuare nella pestilenza una sorta di significato più alto, un messaggio di natura sociale o religiosa, una lezione morale o minaccia etica, si indebolirono e non furono in grado di fronteggiare con successo l’aggressione del batterio. Al contrario, quei personaggi che reagirono in modo solidale arruolandosi e prestando aiuto ai malati senza pretendere un significato profondo per le loro azioni e senza aspettarsi una ricompensa spirituale, riuscirono a sopravvivere all’epidemia. Primo tra tutti il medico Rieux che andava da una casa all’altra, da un malato all’altro e, benché non avesse da offrire loro né la salvezza né una medicina, li seguiva fedelmente. Benché fosse il primo candidato a venire colpito dall’epidemia, Rieux riuscì a resistere.

Questo è il significato del versetto Per chi suona la campana / Suona per te. Il significato e il messaggio dell’epidemia li cercheremo dopo che ci avrà lasciati in pace. Nel frattempo offriamo solidarietà a chi ne avrà bisogno, e sono molti coloro che ne hanno bisogno già ora, così come saranno moltissimi ad averne bisogno ancora di più dopo che sarà passata.

* Traduzione di Sarah Parenzo