Un intero capitolo di I sommersi e i salvati di Primo Levi è dedicato alla persona e alle meditazioni di Jean Améry (Vienna, 1912-Salisburgo, 1978), filosofo e scrittore, suo compagno di baracca in Auschwitz-Monowitz, autore di un importante saggio tradotto in italiano col titolo di Intellettuale a Auschwitz (Bollati Boringhieri, 1987). Figura meno nota di Levi, Améry – che in realtà si chiamava Hans Chaim Mayer – nel 1938 aveva lasciato il suo paese in seguito all’annessione dell’Austria alla Germania ed era emigrato in Belgio, dove, successivamente, avrebbe aderito alla Resistenza. Con l’invasione del 1940 era stato catturato dalla Gestapo, che, prima di condannarlo ai campi perché ebreo, lo aveva torturato per ottenere informazioni.
In Intellettuale a Auschwitz, il cui titolo originale è Al di là della colpa e dell’espiazione e Tentativo di superamento di un sopraffatto (Szczesny Verlag, München, 1966), una parte determinante è incentrata su questo avvenimento: la tortura.
«Chi scrive», sosteneva Vasilij Grossman, «ha il dovere di raccontare una verità tremenda, e chi legge ha il dovere civile di conoscerla». Ma è dolendosi per il lettore e cercando di essere «il più possibile sintetico» che Amery riporta, in un solo, interminabile (seppur breve) paragrafo quanto gli fu inflitto dagli aguzzini in divisa; al fine di giungere all’analisi che si è imposto (un’analisi che scorge nella sevizia l’essenza stessa del Terzo Reich), non può esimersi dal descrivere quanto avvenne, anche se, afferma, quel che subì «non fu certamente la forma peggiore di tortura».
Costretto nella fortezza di Breendonk, dove dominavano le SS, egli fece dunque l’esperienza «più atroce che un essere umano possa conservare in sé»: quella di «vedere alla prova il suo corpo in maniera del tutto inedita» e di vivere «la propria stessa morte». Sprovvisto di informazioni utili ai carnefici – poiché, scrive, se ne avesse avute non avrebbe esitato a «cantare» – Améry parlava, faceva rivelazioni fantastiche, inventate che, non si sa grazie a quale estenuata risorsa, gli passavano per la mente mentre da intellettuale, da uomo «che vive all’interno di un sistema di riferimento che è spirituale», apprendeva «come sia possibile rendere un essere umano unicamente carne».
Come per Levi, le irriferibili violenze subite furono, per Améry, il centro dell’esistenza, l’evento che lo segnò radicalmente e che gli rivelò orrori sulla natura umana che mai nessuno vorrebbe conoscere. Da quel buco nero, col suo lavoro di filosofo, estrasse però considerazioni che oggi è fondamentale non dimenticare; in Italia infatti – nonostante la Diaz e il caso Cucchi – più di un politico ha ancora la sfrontatezza di scagliarsi contro il reato di tortura, mentre Amnesty International ha recentemente chiesto alla Svizzera di inserire tale divieto anche nel codice penale (esso è presente unicamente a livello costituzionale).*
La prima considerazione è che, già dalla prima percossa da parte di un’autorità, la vittima perde quella che egli chiama «la fiducia nel mondo»; cioè la fede nell’implicito patto sociale e civile che la lega all’altro nel riguardo reciproco. Come in uno stupro, messo nella condizione in cui è impossibile difendersi, l’oppresso vive infatti la presenza e la corporeità del suo simile come invasione, sopraffazione e annientamento.
In secondo luogo, come già accennato, la tortura non fu uno degli aspetti del nazionalsocialismo (e di ogni sorta di fascismo), ma il tratto essenziale e distintivo della sua dottrina. In questo senso, oltre che nei confronti di Améry, il debito che ci lega al lascito di Pier Paolo Pasolini è inestinguibile; penso, ovviamente, al suo Salò o a Le 120 giornate di Sodoma.
Chi erano, si domanda il filosofo, quelli che lo seviziavano? Se erano dei sadici, scrive, non lo erano in relazione alla patologia sessuale. Ma il loro atteggiamento era, sì, profondamente, quello dei personaggi del Marchese De Sade: cioè di chi nega recisamente l’altro da sé in nome della propria incontenibile pulsione espansiva, di chi «intende realizzare la propria totale sovranità» senza curarsi della «perpetuazione del mondo».
Questo è quanto si chiedeva ai seguaci del Führer che intendevano guadagnarsi l’ammirazione delle generazioni future: raggiungere la grandezza nell’inumano alienandosi dall’altrui sofferenza, elevare a legge universale le regole della fortezza Breendonk. Vediamo allora che la tortura, la possibilità stessa della tortura, apre le porte a un mondo civilmente capovolto, in cui i basilari e non scritti contratti sociali svaniscono per lasciare il posto a individui che si nutrono dell’annullamento dell’altro; il comandamento che imponeva di tenere conto di chi, con me, condivide l’esistenza è qui tramutato in quello che mi legittima ad abusare del prossimo fino alla sua dissoluzione.
Come Primo Levi e altri sopravvissuti, Jean Améry si è tolto la vita dopo aver lungamente riflettuto su quanto gli era toccato in sorte. Anche questo, forse, può dirci qualcosa: una volta superato il limite, nonostante gli assidui tentativi di elaborazione, nulla, al di là di un gesto, rende possibile un completo reinvestimento di senso nel tempo che rimane prima della fine: «chi è stato torturato resta tale», per sempre.
Nota
* Il Codice penale svizzero menziona la tortura solo in caso di crimini contro l’umanità o di gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra.