Dove e quando
Mangiafoco, Milano, Piccolo Teatro Studio Melato, fino al 22 dicembre. piccoloteatro.org


Vite di attori e teatro nel teatro

Roberto Latini prende spunto da tre capitoli di Pinocchio
/ 16.12.2019
di Giovanni Fattorini

Lo spettacolo firmato da Roberto Latini nella passata stagione s’intitolava Il teatro comico, come la commedia-manifesto di Goldoni in cui un capocomico e i suoi attori – impegnati nella messinscena di una farsa – discutono delle novità introdotte in ambito teatrale dal drammaturgo veneziano: cioè del passaggio dalla Commedia dell’Arte alla commedia «di carattere». Per bocca del capocomico Orazio, Goldoni afferma che è tempo di abolire le maschere e i ruoli fissi per lasciare il campo a personaggi realisticamente individuati; di sostituire i canovacci della commedia «a soggetto» con copioni interamente scritti da mandare a memoria; di adottare una recitazione naturale (priva cioè di intonazioni e gesti artificiosi) e concertata con rigore. Asserisce inoltre che è necessaria una trama ben costruita e priva di inverosimiglianze.

Del goldoniano Teatro comico non era certo l’esile trama a interessare Roberto Latini (sospetto che non lo interessi davvero nessuna trama, nessuna «storia»). Lo interessavano invece la questione dell’attore e quella del «teatro nel teatro». Intervistato prima dell’andata in scena, l’attore-regista ha detto: «Il livello meta-teatrale che vorrei aggiungere al Teatro comico contiene il meta-teatro venuto dopo, che non possiamo dimenticare e far finta che non sia esistito. […] Quello che mi interessa non è rappresentare un testo di Goldoni, ma fare uno spettacolo attraverso Goldoni». Da ciò l’intellettualistica operazione di accumulo (di citazioni, rimandi, interpolazioni testuali, visive, musicali), che strizzando continuamente l’occhio agli addetti ai lavori ha trasformato – mi scuso per l’autocitazione – «la limpida, vitale commedia-manifesto di Goldoni in un uggioso, sterile pasticcio».

Del disinteresse di Latini per le trame ci offre una riprova il suo nuovo spettacolo, Mangiafoco, che prende spunto dai capitoli 10, 11 e 12 del Pinocchio di Collodi. Ricordate? Disertando la scuola, dopo aver acquistato un biglietto coi soldi ricavati dalla vendita dell’abbecedario che Geppetto gli ha comprato privandosi della giacchetta, Pinocchio entra nel teatro dei burattini e viene riconosciuto dai suoi «fratelli di legno», che interrompendo la rappresentazione lo invitano a salire sul palcoscenico, dove festosamente lo abbracciano, provocando la reazione infastidita del pubblico e l’intervento del burattinaio, Mangiafoco, il quale, finita la recita, minaccia di gettare Pinocchio sui ciocchi che ardono sotto la sua futura cena: un montone allo spiedo.

Il teatro comico di Latini conteneva alcuni elementi riconducibili ai tre capitoli del romanzo di Collodi: ad esempio la figura di Pulcinella (inesistente nella commedia di Goldoni) o il manichino da crash test, posto a lato del palcoscenico, che aveva le fattezze di Pinocchio: segno che elaborando Il teatro comico l’attore-regista romano già pensava a Mangiafoco, al centro del quale ritroviamo l’interesse quasi esclusivo per la figura dell’attore e il «teatro nel teatro». All’inizio dello spettacolo (lo hanno prodotto il Piccolo di Milano, la compagnia Lombardi-Tiezzi, la Fondazione Matera Basilicata 20019), ecco fuoriuscire da un sipario fatto di lunghe strisce verticali di carta bianca (scenografia di Marco Rossi, costumi di Gianluca Sbicca) un grande scivolo lungo il quale gli attori entrano in scena come in un gioco fanciullesco.

Le circostanze e i motivi per cui sono arrivati alla determinazione pinocchiesca di lasciare i percorsi «regolari» del mondo immaginabile al di là del sipario di carta per entrare nel mondo del teatro, Elena Bucci, Roberto Latini, Marco Manchisi, Savino Paparella, Stella Piccioni, Marco Sgrosso e Marco Vergani ce li dicono producendosi uno dopo l’altro, davanti a un microfono e al centro di un cerchio luminoso, in sette performance a mezza strada tra l’audizione teatrale e il numero di cabaret, sotto lo sguardo di due misteriose figure con una grossa testa da Mickey Mouse, che sono forse l’esigua rappresentanza di un pubblico più vasto.

Mangiafoco ha una struttura molto semplice: persino troppo, direi. E i monologhi autobiografici degli attori – presentati in successione quasi meccanica – sono più o meno godibili ma non memorabili. Negli intervalli, poi, tra un monologo e l’altro, ecco i rimandi e le citazioni (anche se in quantità meno cospicua che nel Teatro comico): a cominciare dalle succitate figure con testa da Mickey Mouse (imparentate coi personaggi surreali di certi quadri di Savinio, con gli uomini e le donne dalla testa di coccodrillo presenti in alcuni spettacoli della compagnia Lombardi-Tiezzi, forse anche coi conigli umanizzati di Inland Empire, l’ipercriptico film di David Lynch) sino alle immagini finali del fuoco e dei blocchi di ghiaccio da cui sporge un naso pinocchiesco, che per il comune spettatore sono quasi certamente indecifrabili, mentre agli addetti ai lavori e agli appassionati di teatro è probabile che ricordino con forza soverchiante l’Hamletas di Nekrosius.