«Nato nel 1929 a Bellano, dove vive». La biografia di Gianfranco Vitali, figlio di pescatori, è di quelle scarne, che ben si adattano a una vita forse povera di accadimenti esteriori, ma ricca di moti interiori. Poche parole che racchiudono la devozione del pittore al suo luogo di nascita, alla sua casa e ai suoi affetti famigliari, ma anche la ricercata solitudine per dedicarsi a quella che Giovanni Testori definiva la risultanza (pittorica), «un atto, o un fatto, di tutta angoscia, di tutta fatica e, dunque, di tutta e difficilissima lettura». Rileggere questi settant’anni di pittura è la sfida ora raccolta dal figlio Velasco, pittore a sua volta, che ha così compiuto come curatore un cammino filologico per rintracciare un ordine nelle storie e nei gesti dell’arte del padre, come figlio invece un percorso quasi psicanalitico che indaga un rapporto fatto di stimoli, di condizionamenti, di insegnamenti, di critiche e sfide più o meno consci, come suggerisce il doppio ritratto dipinto da Velasco Vitali nel 1988 a fine mostra.
Time out, il titolo della mostra, fa riferimento a quel tempo sospeso in cui si è ritirato Giancarlo preso dal desiderio di una pittura vera (indifferente a ogni forma di celebrazione non ha presenziato all’inaugurazione della mostra), ma anche al desiderio di Velasco di fermare il flusso delle cose per ripartire e rimettersi in gioco, ridisegnando gli schemi. Fuori dagli schemi e dalle mode è sempre stata l’arte di Gianfranco Vitali, che ha attinto dall’umanità che popola Bellano, concentrandosi già da giovanissimo sui ritratti: «Per me dipingere il volto, la testa di un uomo è come toccare la totalità.(…). Quello che io ho cercato di fare con la mia pittura è stato restituire le mie emozioni. E nessun’altra cosa mi ha mai dato emozioni più di un viso. Ma non ho fatto solo ritratti. Con la mia pittura ho cercato di raccontare un pezzo di storia, soprattutto pescando tra la «normalità» della gente comune».
Una «pittura di realtà» che affonda le radici in una lunga tradizione lombarda, ma che gioca con la sua illusione, rivisitata con il gesto drammatico e trasfigurante dell’espressionista e la libertà di chi ha assimilato profondamente la lezione pittorica (e morale) di maestri antichi e moderni – da Goya a Velázquez a Rembrandt, da Morandi a De Pisis, da De Chirico a Sironi, da Beato Angelico a Ensor. La pittura di Vitali sorprende, travolge, invita al sorriso, come quando immortala i resti di un banchetto su una tavola abbandonata dai commensali o ritrae alcune capre o si inventa una strepitosa serie sui girasoli, giocando con un soggetto reso celebre da Van Gogh, o insegue la quotidianità lacustre con le piccole nature morte di pesci. Ma il suo paesaggio preferito, o meglio il teatro a cui guarda, resta il suo paese con i suoi personaggi – il farmacista, il prete, le «spennapolli», la matta, i contadini – che con il tempo confluiscono in scene di gruppo, raccontate con una ironia sottile in un’esplosione di colori e movimento che sottolineano il carattere farsesco di questi matrimoni, processioni e cene di lusso. «Quella del Vitali è un’ironia che, se mai, tutti, a modo suo, intende assolverci. E intende assolverci, tramite la sola carità che compete a un pittore: quella del pittorico e materico splendore»: sono sempre parole di Giovanni Testori, che nel 1983 resta folgorato dalle «macellerie» del pittore di Bellano, che dedicherà allo scrittore milanese il Trittico del toro, dono a cui Testori risponderà componendo tre poesie.
L’universo pittorico di Vitali dilata i suoi confini ad altri ambiti, e la mostra articolata su quattro sedi lo documenta in modo puntuale: a Castello Sforzesco è stato allestito un percorso omaggio al talento di incisore di Vitali e ai maestri da lui amati, valorizzando così anche la preziosa collezione di grafica Bertarelli; il Museo di Storia naturale espone invece i «ritratti» di fossili, la serie Le forme del tempo realizzata nel 1991 in occasione del centenario della morte del padre della geologia italiana Antonio Stoppani.
L’allestimento più inaspettato però è quello che Peter Greenaway, catturato dalla «vischiosità della pittura» di Vitali, ha realizzato nelle stanze della Casa del Manzoni: vere e proprie scenografie che attraverso installazioni sonore e visive richiamano i soggetti e le atmosfere dei dipinti esposti: ci si aggira così fra le stanze come attraversando nature morte a grandezza naturale – una tavola imbandita, il banco del macellaio, cibi pronti per essere cucinati, casacche da cuoco, scarpe e cappelli disseminati sulle scale, abiti e corredi, ma anche letti di ospedale che richiamano l’esperienza della malattia vissuta da Vitali e raccontata attraverso disegni e incisioni. Un percorso in cui sono riconoscibili le ossessioni visive del regista de Il cuoco il ladro la moglie e l’amante, ma in grado di iniettare come un fluido misterioso nuova intimità famigliare agli interni di casa Manzoni, scelti da Greenaway proprio perché non spazio asettico di un museo d’arte, ma luogo di vita vissuta (e di morte). «I quadri – scrive il regista e pittore di formazione – non appartengono a un altro mondo, sono di questo mondo. (…) Sono tutte testimonianze che ci aiutano a guardare e a vedere. E a vivere».