Il pianista Stephen Kovacevic ha studiato per otto anni le 32 Sonate del grande Ludovico Van («Senza una vacanza più lunga di tre giorni», ci confessò, ospite al Cinema Lux) prima di sentirsi pronto per la registrazione di un’integrale a dir poco monumentale. François Truffaut dedicò buona parte della sua filmografia all’amore, inteso in senso lato: da quello coniugale a quello per il cinema, arricchendo ogni pellicola con aforismi fulminanti («L’amore a prima vista è come vivere un secolo in un secondo») certo scaturiti da una lunga quanto attenta riflessione. Antoni Gaudì consacrò ben 42 anni della sua vita al progetto della Sagrada Familia e dopo l’ennesimo giorno di lavoro uscì da quel cantiere (eterno? è aperto dal 1882!) ancora così concentrato su guglie e le cripte da attraversare la strada senza accorgersi del tram che l’avrebbe investito e ucciso.
Di fronte a questi e altri artisti che dedicano attenzione, tempo indefinito e talento a un unico soggetto, il vostro cronista di solito vive due sentimenti contrapposti. Da un lato l’ammirazione per tanta dedizione; dall’altro uno sfumato senso d’inquietudine riguardo un interesse tanto ostinato che rischia talvolta – ai nostri occhi almeno – di scivolare nella monomania.
Ebbene, William Wegman è dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso che si ostina a fotografare sempre e solamente i suoi cani. Però, di fronte al centinaio di opere attualmente esposte al LAC – dove protagonisti assoluti sono i suoi Weimaraner, il senso d’inquietudine di cui sopra non l’abbiamo per nulla vissuto. Perché Wegman dimostra una tale fantasiosa creatività nel mettere in posa i suoi bracchi di Weimar da indurci a credere che in questi quarant’anni non sia stato per nulla ossessionato da un’idea comunque martellante, né tanto meno si sia annoiato.
Wegman non vuole portare una velata critica alla società come ha fatto, sempre partendo dall’amico più fedele dell’uomo, Elliott Erwitt coi suoi barboncini bianchi. Si accontenta, si fa per dire, di cogliere alcuni aspetti del nostro quotidiano – e dei suoi miti, aggiungerebbero Barthes e Baudrillard – per ironizzarci sopra, talvolta con un tocco di sarcasmo. Gli spunti gli vengono dall’universo glamour (moda e addirittura erotismo, col segugio ri/vestito in maniera casual o in ammiccanti pose da top model); dal mondo del lavoro, con un pensiero a quella civiltà contadina (Farm Boy) che si rifiuta di sparire per sempre; dalle nostre ricche eredità culturali: l’opera lirica (Tamino del Flauto Magico) e soprattutto la scultura e le arti figurative. Si passa allora dalla statua di un’Eva nuda e classicheggiante che offre la mela a un perplesso Weimaraner all’altro bracco che posa delicatamente le sue zampe su un grande cubo nero cercando di «liberarne» uno più piccolo e bianco, ottenendo così un’opera intitolata Costruttivismo: un Malevic con intruso a 4 zampe!
Il sospetto che si tratti tutto di un gioco (quanto gradito agli animalisti non sapremmo dirvelo) è confermato dalle didascalie che introducono le nove sezioni della mostra, firmate dal curatore dell’esposizione William A. Ewing, il quale dà la parola direttamente ai cani; ben felici di rovesciare la prospettiva che di solito noi umani abbiamo riguardo ai nostri amici a quattro zampe, con risultati a volte esilaranti. Ewing, già direttore dell’Elysée di Losanna, nota altresì che, sebbene Wegman ponga i cani al centro del suo mondo, «le scenografie, i costumi e gli oggetti di scena rivelano il fascino che la storia dell’arte ha su di lui: dal cubismo alla pittura color field, passando attraverso l’espressionismo astratto o il concettualismo. Nelle opere di Wegman, inoltre, sono evidenti i riflessi di diversi generi fotografici come il paesaggio, il nudo, il ritratto e il reportage».
E loro, i veri protagonisti della mostra? Beh, i Weimaraner («Il primo che ho avuto l’ho battezzato Man Ray») sembrano aver scelto un modello preciso per porsi docilmente davanti all’obiettivo: Buster Keaton. Come il grande attore, sono sempre speranzosamente attoniti e disincantati, lo sguardo d’una malinconia sottile ma così ostinata da negarci il benché minimo sorriso, nemmeno nelle situazioni più umoristicamente improbabili.