Al suo primo mandato come direttrice artistica, Emilie Bujès propone per questa 49esima edizione di Visions du réel un menu a dir poco succulento. Giovane ma ricca di un’esperienza invidiabile internazionale e multimodale, la nuova portavoce del cinema del reale stupisce grazie a una riservatezza e a una risolutezza tutto sommato simili a quelle del suo predecessore Luciano Barisone. All’annuncio della nomina ha reagito così: «sono molto onorata e impaziente di raccogliere la sfida d’infondere nuova vita al Festival, mantenendo al tempo stesso il suo alto livello qualitativo». L’impazienza di Emilie non è da confondere con l’impulsività, ma va letta come il bisogno viscerale di proseguire con sincerità e una buona dose di caparbietà, al fine di continuare a sostenere una visione ben precisa del cinema del reale, finalmente libero dall’obsoleta dicotomia fra finzione e documentario.
Emilie Bujès sa benissimo cosa sta facendo e soprattutto dove sta andando. Non è certo un caso se la «Maître du réel» di quest’anno è la poliedrica regista, sceneggiatrice, attrice, direttrice della fotografia, montatrice e chi più ne ha più ne metta, francese Claire Simon. Sin dall’inizio del suo mandato Emilie Bujès non ha nascosto la sua voglia di iniettare nel festival una buona dose del suo percorso e della sua personalità: multiforme, artistica e aperta alla sperimentazione di nuovi linguaggi e forme cinematografiche deliziosamente imperfette e incuranti delle classiche categorizzazioni (di genere, formato, durata,…) legate all’espressione filmica.
Spregiudicata e per molti aspetti avanguardistica, l’inclassificabile regista francese Claire Simon si è incamminata su sentieri tortuosi sin dagli inizi della sua carriera. Decisa a filmare ciò che normalmente, per velleità estetiche e/o etiche, non si mostra, Simon debutta al cinema con un film decisamente provocatorio. Scènes de ménage nasce nel 1991 in un formato atipico: dieci moduli di quattro minuti che trascrivono l’intimità domestica di una casalinga qualsiasi che ha la sfrontatezza di dire ad alta voce quello che molte si limitano a pensare. A incarnare questa anonima casalinga c’è la bravissima Miou-Miou, che si trasforma in ambasciatrice di un genere cinematografico senza frontiere, nato dal reale ma trasformato sullo schermo attraverso il personale sguardo del regista. Un cinema che non nasce dall’illusione di una fedele trasposizione della realtà, ma che lascia al regista la libertà di dare forma a ciò che vede, sente, respira come meglio crede, in sintonia con la propria sensibilità e in linea con il discorso che vuole veicolare.
Se c’è qualcosa che davvero accomuna tutti i film selezionati è proprio questo: la sensibilità al servizio e non sottomessa alla realtà. È straordinario rendersi conto di quanto la decostruzione di ciò che ci attornia attraverso l’arte sia inaspettata e ricca di spunti di riflessione, d’emozione, ma anche di discussione.
Sin dal potentissimo film di apertura Of Fathers and Sons, del siriano Talal Derki, è evidente la ricchezza del ruolo del regista come passatore fra una realtà non sempre facile da capire e lo spettatore. Nel film egli ritorna nel Nord del suo paese natale facendosi passare per un sostenitore del movimento jihadista. Il risultato è un film dalle sembianze distopiche che sembra direttamente uscito dalla mente lucida e provocatoria di Philip K. Dick. La realtà può essere tanto terrificante da sembrare irreale? Come ha potuto l’odio spazzare via ogni traccia se non d’amore perlomeno di raziocinio? Talal Derki filma, rischiando la sua stessa vita, una realtà che l’ha privato d’una parte della sua stessa identità, ingoiando le sensazioni, i profumi e i colori che ha conosciuto.
Orfano delle sue origini il regista cerca di ricostruire un presente che, pur ferendolo nel profondo, è costretto ad affrontare per elaborare il lutto del passato. Cosciente dell’impossibilità di trascrivere in maniera neutra ciò che vede, Talal Derki usa la sensibilità come arma di controllo su ciò che lo ripugna. Impotenti, diventiamo testimoni della distruzione d’ogni innocenza, ci intossichiamo d’odio, ci facciamo carico di un’indignazione infine spaventosamente reale.
Molti sono i film presentati che si tuffano nella fragilità di mondi intimi. Fra questi A Bright Light – Karen and the Process dell’artista svizzera Emmanuelle Antille che ci regala, filtrato dal suo personalissimo sguardo, il ritratto di Karen Dalton, una delle musiciste folk più misteriose e talentuose degli Anni sessanta. Sebbene la presenza della regista sembri a tratti ingombrante, ci rendiamo presto conto dell’originalità del suo postulato di base: mettere da parte la pretesa di catturare l’anima di una creatura libera per natura e cercare piuttosto di riflettere sulle emozioni che la sua musica sa veicolare e che la regista sente in modo quasi epidermico. Un road movie affascinante che partecipa alla costruzione di un’identità «femminile» ibrida e in movimento, delineatasi quest’anno attraverso numerosi film incentrati sull’intimità di donne catturate nella loro catartica complessità.
Fra questi anche il toccante Sisters di Peter Entell che scava nell’apparente normalità del quotidiano per estrarne una verità insospettata. Sulla stessa linea 1999 – Wish You Were Here, primo lungometraggio della canadese Samara Grace Chadwick che attraverso filmati e diari ripercorrere un passato in cui hanno trovato la morte (per suicidio) più di dieci studenti dello stesso liceo. Un’analisi sottile e straordinaria dell’adolescenza e allo stesso tempo una sorta di terapia collettiva che nasce dal centro della terra travolgendoci come un terremoto. Se in un primo tempo è il cervello a voler prendere il sopravvento è ben presto la terribile poesia delle immagini a guidarci verso una verità che sarà sempre straordinariamente multiforme.
Ed è questo forse il messaggio fondamentale che ci regala ogni anno Visions du réel.