Peter Brown, Il robot selvatico, Salani. Da 10 anni.
Il sostantivo «robot» evoca qualcosa di artificiale, di freddo, di programmato; l’aggettivo «selvatico» è invece l’esatto contrario, è natura imprevedibile, calda, viva. Un contrasto che fonda questo bel romanzo, basato su un’idea appassionante: un robot, dopo il naufragio della nave su cui viaggiava con altre macchine, arriva su un’isola piena di vegetazione e di animali. La sua cassa viene aperta da alcune lontre che, esplorando quella cosa metallica adagiata sul fondo, ne premono casualmente un bottone. E la cosa si attiva: «Salve il mio nome è Rozzum, unità 7134, ma potete chiamarmi Roz. Non appena completamente attivata, sarò in grado di muovermi, di comunicare e di apprendere».
A questo punto inizia la storia, avventurosa e anche commovente, dell’interazione di questo robot (o meglio questa robot, perché Roz parla di sé al femminile) con gli animali dell’isola. Dopo la diffidenza iniziale, gli animali entrano in relazione con lei, e Roz, che all’inizio è perfettamente funzionante ma distaccata, perde via via le sue connotazioni di automa, diviene meno performante, più ammaccata, assumendo caratteristiche sempre più vicine a quelle animali (umani o non umani che siano). Ed è proprio la sua fragilità a farla diventare così simile a una creatura vivente. Ma, ora, Roz cos’è, chi è? Si gioca qui, su questo confine, il fulcro del libro. Certo, tanta narrativa fantascientifica ha messo in evidenza la sottile linea che separa l’essere umano dalla creatura androide. Macchina o organismo capace di emozioni? Creatura libera o creata per essere schiava del suo padrone? Tuttavia questo romanzo ha una sua indubbia originalità, perché racconta di un robot nella foresta, di un ammasso di ferro rovinato, scurito, infragilito, riempito di terra e foglie, che prova dei sentimenti, diventando addirittura la madre adottiva di una piccola oca, e conquistando il cuore dei lettori.
Kim Crabeels (testo) – Marije Tolman (illustrazioni), Felicottero, Sinnos. Da 4 anni.
A Fenicottero manca una zampa, l’ha persa in un incidente di volo. Era un campione, Fenicottero: un campione di volo veloce, di pesca del gamberetto, e di molto altro. Ma poi i suoi sogni si sono infranti, come la sua zampa, che non è stato più possibile aggiustare. Ora se ne sta in acqua, meditabondo, su una gamba sola. «Per forza!» chiosa il testo, ironico ed efficace, con una schiettezza espressa in particolare nel dialogo con il Millepiedi, che sferruzza centinaia di calzini per le sue innumerevoli zampe. A chi troppo e a chi poco. Ma è saggio, Millepiedi, e senza compatirlo riesce a infondere coraggio a Fenicottero, oltre che a spronare gli amici animali a stargli vicino. Già perché la zampa gli mancherà anche, dice Millepiedi, ma «più di tutto gli mancano i suoi amici»: Fenicottero si esercita, prova e riprova, e finalmente riuscirà di nuovo ad alzarsi in volo e a disegnare meravigliose «righe rosa nel cielo rosato dell’alba», ritrovando la felicità. Tanto che ora per tutti sarà «Felicottero».
Ispirata alla storia vera del triatleta belga Marc Herremans, quella di Felicottero è una storia ben scritta (il testo è leggero e ironico, come dicevamo), ben illustrata (notevole quel rosa fluo, energico, deciso, che identifica il protagonista) e ben tradotta dal nederlandese, con un buon ritmo, da Laura Pignatti, a cominciare dal titolo, ancor più giocoso dell’originale Flamingo!.