Che cosa succede quando uno dei più grandi artisti contemporanei prende la parola al Collège de France per tenere lezioni e seminari? Si viene proiettati dal celebre artista tedesco Anselm Kiefer in un viaggio inaspettato e anticonvenzionale nella storia dell’arte e nel significato dell’immagine artistica, partendo dalla considerazione che la necessità di esprimere l’arte si scontra con l’impossibilità di definirla e afferrarla con la parola teorica. L’autore di opere memorabili come Lilith, che da sempre si interroga sul passato e sull’identità del proprio Paese, compie questo percorso attingendo al mito, alla religione, alla scienza e alla letteratura (ricorrono i nomi di Paul Célan, Ingeborg Bachmann, Paul Valéry, Jean Genet).
Nonostante l’arte sembri oggi sull’orlo dell’abisso, soffocata dal mercato, dalla quantità e dalla ripetizione, «sopravvivrà alle sue rovine» (titolo del saggio uscito per Feltrinelli), afferma Kiefer che si (e ci) pone alcuni interrogativi cercando ipotesi di risposte. L’artista, come il poeta, osserva Kiefer, esaurisce il mondo per sostituirlo con uno nuovo. Partendo dall’analisi di proprie opere, e di quelle di altri artisti contemporanei e del passato, Kiefer porta a riflettere sullo statuto dell’artista, un essere che tende alla totalità, e sul rapporto fra materia, natura e idea. Del resto il linguaggio, non soltanto descrive, ma determina anche il pensiero.
E allora è inevitabile pensare alla prassi artistica di Kiefer stesso che si affida al tempo e agli agenti naturali per completare l’opera (mai finita), ma anche all’utilizzo di materiali di transizione come il piombo, perché rinvia a un’idea di evoluzione; il piombo «racchiude una scintilla di luce che sembra appartenere a un altro mondo», con riferimento al sapere degli alchimisti.
La ricerca dell’artista insomma è fatta di deviazioni faticose, in cui intervengono il caso e le scelte personali, da percorrere per poter imbattersi in una sorpresa. I fili delle riflessioni di Kiefer, come quelli della costellazione di Andromeda che nell’omonima opera affondano nelle profondità marine, uniscono quasi magicamente le cattedrali di Monet agli autoritratti di Rembrandt, le opere di Lorenzo Lotto ai disegni di Victor Hugo.
Gli ultimi due capitoli danno infine accesso ai suoi luoghi di creazione; Barjac – un complesso di edifici e gallerie sotterranee – e l’atelier di Croissy, uno spazio labirintico e monumentale dove idee e materiali «producono una sorta di cristallizzazione chiamata Arte». Un’arte che Kiefer ha proibito ai suoi agenti di esporre alle fiere internazionali per sottrarla alle logiche del mercato e della pura speculazione, molto lontana quindi dal geniale cinismo di Damien Hirst che mise all’asta molte delle sue opere nei giorni seguenti al crac finanziario del 2008. Ma se l’arte è ridotta a puro consumo, è legittimo chiedersi se esista ancora: certamente sì, almeno finché ci porremmo queste domande, risponde Kiefer.
Altro attualissimo saggio l’indagine sistematica che l’artista, curatore e critico spagnolo Joan Fontcuberta, propone sulla così detta epoca postfotografica (La furia delle immagini, Einaudi). La rivoluzione digitale ha travolto anche l’immagine fotografica, soggetta ormai a una completa smaterializzazione, condivisa e accessibile a tutti grazie alle nuove tecnologie.
L’autoritratto, un tempo appannaggio dei soli artisti, si rinnova oggi nella pratica del rito collettivo del «selfie» (che, si scopre, ha avuto dei precedenti agli inizi del Novecento): Fontcuberta definisce copernicana la rivoluzione che ha visto la macchina staccarsi dall’occhio per rivolgersi al soggetto. Un gesto che ha messo in crisi la fotografia documentaria e creato una nuova categoria, la fotografia discorsiva: «Prima la fotografia era linguaggio, ora è scrittura». Ma questa evoluzione – che al culmine vede l’apparizione dell’homo photographicus – comporta anche delle perdite: di senso, di memoria e di valori. I nuovi valori sono l’errore e il caso.
Stimolante anche la lettura del saggio del pittore e scrittore inglese Julian Bell – nipote di quel Julian Bell figlio della sorella di Virginia Woolf –, che a distanza di qualche tempo dal racconto di John Berger, cerca di proporre alcune ipotesi alla domanda: «Che cos’è la pittura?» (edizione rivista del saggio uscito nel 1999, pubblicata da Einaudi), in risposta a chi dava ormai in via di estinzione la pratica del dipingere. Bell individua alcuni snodi fondamentali nella storia della pittura; fra questi il concetto di rappresentazione, l’opposizione fra realismo e idealismo (forse soltanto apparente), la grande sfida dell’astrazione alla figuratività; l’evoluzione di concetti quali lo spazio e la prospettiva; l’importanza della dimensione temporale e della dimensione conoscitiva («Che cosa c’è da conoscere in quello che vediamo?», sembrano chiederci le nature morte di Giorgio Morandi). Teorie sull’arte riviste con l’occhio del pittore per ritrovare il piacere di guardare.