Peccato che Karl Marx e Friedrich Engels non abbiano aggiunto al loro Manifesto un secondo slogan. Per esempio: «Viaggiatori di tutti i paesi socialisti, unitevi!». Forse così Lenin e Stalin, dopo la rivoluzione, avrebbero reso più agevole il turismo nella grande patria sovietica. Anche se, a loro modo, qualcosa fecero ampliando il sistema ricreativo e sviluppando un controprogetto proletario in risposta al turismo occidentale del tempo legato per lo più all’ascesa della borghesia dominante, come ci racconta Christian Noack nel curioso libro edito da Keller Viaggiare contro vento. Viaggiatori illegali nell’URSS a cura di Cornelia Klauss e Frank Böttcher. A leggere il suo ABC del turismo sovietico ci si avventura in una realtà ricca di sorprese con l’impressione di captare un’intera epoca.
Per i sovietici era essenziale, ad esempio, un attestato di autorizzazione senza il quale non potevano alloggiare nei luoghi di cura termali o in località balneari come la costa del Mar Nero e le spiagge della Crimea e diventava difficile visitare siti esclusivi consigliati dal regime come campi di battaglia e impianti industriali, emblema e vanto dello sviluppo del socialismo. E poi c’era il problema dei mezzi di trasporto. Per la scarsità di biglietti ferroviari ancora all’inizio degli anni Settanta le autorità incoraggiavano l’autostop e non erano pochi i camionisti disponibili: chi trasportava molte persone su lunghi percorsi veniva addirittura premiato.
Ma se i sovietici avevano difficoltà a progettare le loro vacanze, i compagni socialisti della DDR trovavano per lo più sbarrata la frontiera con l’Urss. Una soluzione c’era: partecipare a un viaggio di gruppo con un preciso itinerario. Ma chi sognava la totale libertà on the road per intrufolarsi nel più grande paese del mondo – come qui ricorda Michael Beleites membro fondatore di Greenpeace della DDR – doveva ricorrere ad una strategia diversa: per esempio chiedere un visto per la Romania con un permesso di transito per l’Unione Sovietica; qui giunto, muoversi liberamente senza rispettare le quarantotto ore disponibili. Se incappava nella polizia al peggio pagava una multa e veniva espulso. I giovani protagonisti del movimento Unerkannt durch Freundesland (Clandestino attraverso un paese amico), una sorta di opposizione pacifica al regime, ne sapevano qualcosa, ma avevano fatto di quella pratica una vera e propria bandiera.
Sono molte qui le testimonianze che rievocano in modo coinvolgente e bizzarro l’intensa atmosfera di un’epoca e di un paese. Le mete preferite erano spesso le regioni baltiche. Vilnius, Riga, Tallin, le città più frequentate che la fotografa Tina Bara, ad esempio, ricorda con entusiasmo nella sua lettera all’amico artista Martin Claus con il quale si spinse allora fin sulle rive del Baltico fotografando luoghi e persone, e frequentando artisti, sbandati, amanti del jazz. Le immagini riprodotte nel libro, oggetto di un’esposizione berlinese del 2010, curiosano smaniose nella vita quotidiana, lontano da ogni retorica del tempo. Sono flash di visitatori illegali che si aggirano spesso senza una meta precisa né obblighi o pressioni. Nascono così amicizie e si consolidano affinità politiche e non pochi, come lo stesso Beleites, scoprono con passione il patriottismo nazionale dei lituani che chiedono libertà e indipendenza. Proprio dai suoi soggiorni e dall’incontro con amici di Vilnius scaturisce la sua precoce delusione nei confronti del socialismo. Lui, ornitologo, che si spinge fra non poche difficoltà fino a Kaliningrad (l’antica Königsberg patria del filosofo Kant) e alla penisola di Neringa nel periodo della migrazione degli uccelli, ha conosciuto da tempo il volto duro del regime. Per un libro sulla spinosa questione dell’estrazione dell’uranio nella DDR, fu preso di mira dalla Stasi, la polizia segreta, che lo giudicò un pericolo per l’ordine pubblico e gli impose il divieto d’espatrio per un paio di anni.
Nei racconti dei giovani clandestini della Germania orientale degli anni Settanta e Ottanta si percepisce il bisogno di un orizzonte nuovo e la necessità di uscire da uno stato di latente claustrofobia. C’è Gabriel Berger, figlio di un ebreo sfuggito al nazismo, che in compagnia di un paio di amici se ne va in Ucraina e in Georgia a bordo di uno scooter e fa amicizia con mezzo mondo: contadini, operai, studenti, professori e perfino poliziotti e funzionari politici. Ai tre ragazzi è andata bene: con astuzia e fortuna sono riusciti ad ottenere dal partito il benestare per il viaggio. E le sorprese non mancano. Incontrano un vecchio nobile a Odessa e di fronte a un castello orientale da fiaba, un tempo residenza dei tatari di Crimea, scoprono che dopo la guerra l’intera popolazione era stata deportata a forza. Il passato si mescola tristemente al presente e deperisce nel ricordo come le centinaia di chiese russe in rovina utilizzate come magazzini o biblioteche. Ma lo spirito santo non è del tutto scomparso: è quello di Lenin ritratto ovunque e del suo crudele successore Stalin la cui immagine domina il paesaggio della Georgia.
Curiosa è anche l’esperienza di Gernot Friedrich che più tardi sarà per un ventennio parroco a Jena. Afferma di essere stato fin da bambino un uccel di bosco. Amava fuggire di casa e così diventò presto un viaggiatore abituale nei paesi del socialismo spingendosi da solo fino in Mongolia. Poi per conto di un’organizzazione evangelica inizia a rifornire di copie della Bibbia le comunità tedesche luterane lungo il Volga. Non senza incappare nella polizia ed essere espulso.
Epiche tensioni e stralunati vagabondaggi si mescolano in questo libro dove è di casa anche il geologo Ginzel, un signore assai originale che vive isolato in un «hotel alternativo», cioè in una grande e caotica capanna fra i monti Isar nella Repubblica Ceca, considerato un santo protettore del movimento dei giovani clandestini. Attraverso queste figure e la loro dottrina di vita insofferente di ogni costrizione, il paesaggio del socialismo appare in una nuova luce, ricco di fermenti, di attese, di utopiche velleità. E questa piccola antologia dei viaggiatori dissidenti ricorda che al di là delle ideologie la speranza di una vera emancipazione per tutti, a est e ad ovest, resta l’imperativo fondamentale nella vita di ogni essere umano.