Se non fosse per le cronache della «Thurgauer Zeitung» e di qualche altra testata locale della fine degli anni Cinquanta, oggi probabilmente sapremmo poco, o nulla, delle migliaia di donne svizzere partite in quegli anni alla volta dell’Inghilterra. Erano così tante che la «Thurgauer Zeitung» le definì uno stormo di uccelli in volo, non si hanno i numeri esatti ma, stando ad alcune fonti, pare partissero in settemila, talvolta, addirittura diecimila l’anno. E noi, allora, come possiamo essere a conoscenza delle loro storie? Dobbiamo dire grazie alla pubblicazione di Simone Müller uscita in tedesco per l’editore Limmat con il titolo Alljährlich im Frühjahr schwärmen unsere jungen Mädchen nach England. Die vergessene Schweizer Emigrantinnen, 11 Porträts (Ogni anno le nostre giovani ragazze sciamano verso l’Inghilterra. Le emigranti svizzere dimenticate, 11 ritratti).
Nata a Boston nel 1967, cresciuta a Berna, laureata in germanistica e etnologia, Simone Müller si è letteralmente appassionata a questo esodo femminile e ne ha dato conto tratteggiandone, in un primo momento, i contorni e gli elementi storico-sociali, in un secondo, puntando al cuore delle protagoniste. Ognuna le ha raccontato la sua storia personale ma c’è un tratto che accomuna tutti i loro racconti: la partenza del treno alle 23.30 da Basilea. Da qui iniziava quello che per molte era il primo viaggio lontano da casa, per molte altre un viaggio senza ritorno perché sarebbero rimaste per sempre in Inghilterra. Tra tante storie, due sono ticinesi, quella di Annetta Diviani-Morosi, classe 1926, e di Maria Gibbs-Schwaninger, classe 1932. Nel secondo caso si tratta di una storia tipica per gli anni Cinquanta, ci dice Simone Müller, «Cresciuta in una fattoria a Gutmadingen, nel Canton Sciaffusa, fece un apprendistato come sarta. Un giorno però ne ebbe abbastanza di cucire e con una collega andò a Londra. Il suo futuro marito, i giornali di allora mettevano in guardia le giovani donne dagli incontri fortuiti, lo incontrò per strada in un grigio pomeriggio di novembre davanti alla vetrina di un negozio di scarpe. Lui d’un tratto le si avvicina e le rivolge la parola. Al- l’inizio, Maria Gibbs-Schwaninger non gli dà retta e declina l’invito di andare a bere qualcosa ma l’uomo era tenace, molti altri tentativi dopo cede e alla fine si sposano. Simone Müller ha giusto fatto in tempo ad incontrarla, la signora è scomparsa l’anno scorso ed è sempre stata felice del suo matrimonio e del suo lavoro, ha sempre cucito, fino all’ultimo giorno. In Inghilterra, per un paio di anni, aveva persino lavorato da Liberty, un rinomato grande magazzino nel centro di Londra. Era l’unica ad avere una solida preparazione e a parlare le lingue, il francese in particolare, indispensabile per comprendere i cartamodello francesi».
Ma c’è anche la storia di Helene Alexandrou–Neeser, classe 1927, di Schlossrued nel Canton Argovia, che a Londra ha incontrato suo marito Nick Alexandrou, cipriota. «Non avevamo niente quando abbiamo iniziato, per dieci anni abbiamo lavorato duramente e messo da parte i nostri risparmi finché ci siamo potuti comprare il nostro ristorante a Colindale, a nord di Londra» racconta la donna nel libro. Quando si sposano Helene non sa di aver perso la cittadinanza svizzera e mantiene, per errore, il suo passaporto. A quei tempi, la legge cambiò nel 1992, la moglie assumeva la cittadinanza del marito e sposando uno straniero, una donna svizzera perdeva di regola la sua nazionalità.
Il grande esodo delle donne svizzere si estese per diversi decenni fino agli anni Sessanta. Simone Müller si è concentrata sulle giovani donne che partirono tra gli anni Quaranta e Cinquanta: «a quei tempi tutte viaggiavano in treno, prendevano il notturno verso la Francia in partenza alle 23.30 da Basilea. Poi con la nave attraversavano il canale della Manica e, una volta in Inghilterra, prendevano nuovamente il treno. Per loro già solo il viaggio era un’avventura. Quasi tutte venivano assunte in qualità di collaboratrici domestiche, spesso venivano reclutate grazie alle agenzie, altre grazie alle inserzioni sui giornali. Se non avessero trovato un lavoro non sarebbero mai potute partire, non avevano nemmeno i soldi per il viaggio». Molto spesso, infatti, erano le agenzie o le famiglie presso le quali stavano ad anticipare le spese. Mina Rui-Oppliger, classe 1919, di Rohrmatt, lavorava come donna di servizio nel lucernese e dice molto chiaramente quanto a quei tempi fosse difficile trovare lavoro in Svizzera. Negli anni Sessanta invece era tutto diverso, per arrivare in Inghilterra si prendeva l’aereo, i contatti con le rispettive famiglie erano più stretti, telefonare a parenti e amici era più economico. Il maggiore benessere di quegli anni contribuì a cambiare le ragioni di viaggio di molte donne che, a quel punto, non erano più in cerca di un lavoro ma di un’opportunità per imparare l’inglese.
«Ogni incontro con queste donne è stato molto emozionante – riflette Simone Müller – È stato curioso entrare nelle loro case tipicamente inglesi, in cui tutto, dall’entrata, fino ai mobili e al giardino è molto british. Sulle prime non sembrano delle abitazioni nelle quali vivono da tanti anni delle straniere. Poi però, guardando meglio, si scoprono le tracce inconfondibili delle loro origini: quei relitti svizzeri come il cristallo di rocca sul camino, o il calendario con la raffigurazione del Matterhorn. Ogni abitazione in fondo esprime quella contaminazione avvenuta tra la cultura di origine e la cultura di arrivo».
Se il fenomeno in sé in passato è stato dimenticato, ad essere rimaste sono le storie individuali: «ci si ricorda ancora della propria nonna partita per l’Inghilterra o della zia andata a Brighton e poi rimasta lì. Questo viaggio, però, lo hanno intrapreso tante altre giovani donne svizzere».