«Fedele al vero, realista e pignolo». «Scenografico, e immaginifico». «Di cattivo carattere, esigente e avido». «Geniale, moderno e generoso». Giudizi, lodi sperticate e critiche velenose che, su Giovanni Antonio Canal, detto Canaletto, sembrano rincorrersi da una sala all’altra della Mostra a lui dedicata a 250 anni dalla morte, a Palazzo Braschi a Roma, dove oltre ai suoi quadri – quelli che lo resero famoso a Venezia, in Inghilterra e nel mondo – sono esposte le lettere dei suoi amici collezionisti e dei mercanti d’arte; quelle dei nobili viaggiatori del Gran tour, acquirenti delle sue vedute; di amici e colleghi veneziani, che lo imitano e lo invidiano, anche se lui, talentuoso e famoso, ormai vecchio, è malato e povero. Sino al suo epitaffio.
La Mostra Canaletto 1697-1768, curata da Bożena Anna Kowalczyk, con oltre 60 opere tra dipinti e disegni, per la prima volta in Italia racconta con vivacità non la sua Venezia, o la sua Londra, ma l’artista, dagli esordi alla fine della sua vita, in un percorso diviso in nove sezioni. Accanto ai documenti dell’epoca, campeggiano molti dei suoi quadri più celebri, assieme a quelli conosciuti e «invisibili» finalmente riuniti in questa esposizione per illustrare Canaletto: la sua storia, i progressi della sua tecnica, i cambiamenti, i suoi interessi, la «conquista della luce», in una sorta di viaggio pieno di scoperte dove Roma, ha avuto un ruolo determinante nella vita del pittore.
«L’avventura artistica di Canaletto inizia proprio in questa città, dove arriva in trasferta, al seguito del padre Bernardo, pittore, che da un paio d’anni lo ha preso nel suo atelier incaricato per le scenografie teatrali delle opere di Antonio Vivaldi e poi per quelle di Scarlatti, e dove il diciassettenne Canaletto si fa conoscere per l’immediatezza del tratto e la bellezza dei disegni». – ci racconta la curatrice Bożena Anna Kowalczyk – «Roma lo incanta, a contatto con il mondo artistico romano, l’architettura e le rovine dell’antichità, la pittura scenografica di Canaletto diventa una pittura di capricci archeologici, dai quali prende avvio tutta la sua avventura artistica e la decisione di diventare vedutista e di dipingere Venezia, prima con quel suo modo scenografico e poi, progressivamente, sotto l’influsso delle nuove teorie scientifiche sulla luce di Newton e quelle sulla percezione di George Berkeley», che porteranno il suo gusto a cambiare fino a creare una “veduta” di Venezia razionale e scientifica, che sarà il suo trionfo». È quella rappresentazione che, con la sua luce limpida, cristallizzata, è destinata a diventare parte del mito di Venezia e di Canaletto stesso: è l’immagine che ancora oggi ci portiamo dentro.
Il Canal Grande da nord, verso il ponte di Rialto, e il Canal Grande con Santa Maria della Carità, della Pinacoteca Gianni e Marella Agnelli di Torino, che sono esposti per la prima volta assieme al manoscritto dell’epoca che ne narra i retroscena, sono il primo e l’ultimo dipinto, di una serie di quattro, eseguiti su commissione, e, come sottolinea Bożena Anna Kowalczyk, «rappresentano lo spartiacque tra il giovane genio e il raggiungimento della maturità artistica: in essi c’è la “giovinezza”, ma anche la sperimentazione». In un’altra sala il grande e sfarzoso dipinto: Il Bucintoro di ritorno al molo il giorno dell’Ascensione, proveniente dal Museo Pushkin di Mosca; come pure la veduta del Molo verso ovest con la Colonna di San Teodoro a destra, della Pinacoteca del Castello Sforzesco, ci mostrano un Canaletto spettacolare, che realizza dei quadri di cronaca della vita veneziana: il primo descrive la più importante festa religiosa e politica della città, con il Bucintoro e le gondole degli ambasciatori; l’altro con il mercato del pesce e dei polli, ingombro di botti e di vecchie sedie abbandonate qua e là, mentre compratori e venditori gesticolano e passeggiano, sembra un teatro a cielo aperto. «Sono quadri dove l’artista, appare attento ai minimi dettagli, perché Canaletto in ogni momento della sua creazione è un cronista, però dobbiamo pensare che è un cronista del quale, proprio per il suo talento, non dobbiamo sempre fidarci». Chiosa la curatrice, ricordandoci il disegno L’incoronazione del Doge sulla Scala dei Giganti di Palazzo Ducale, una stupefacente rappresentazione dove il Doge e gli altri dignitari sono puntini trascurabili davanti alla bellezza scenografica della facciata e dello scalone del Palazzo.
«Grazie ai quadri e ai disegni ottenuti, ho avuto la possibilità in questa mostra di fare un discorso allo stesso tempo razionale e poetico», ci fa notare Bożena Anna Kowalczyk guardando la Veduta di Chelsea vista dal Tamigi, dipinto dell’ultimo periodo, quello londinese: un grande quadro che, ancora oggi, cela un mistero. Infatti in un’epoca imprecisata venne tagliato, e il Governo Cubano, che ne possiede la «parte destra» nel Museo dell’Avana, per la prima volta ha lasciato uscire la tela dal Paese, così che potesse essere ammirata, accanto alla «parte sinistra», di proprietà del National Trust in Inghilterra, ricostituendo così, nella mostra romana, la Veduta nella sua «interezza», con i colori di una paletta che racconta gli influssi e le contaminazioni che il paesaggio inglese ebbe sull’arte di Canaletto.
Ma niente poteva far dimenticare all’artista, ormai anziano, quella Roma che lo aveva abbagliato in gioventù, e, nel Capriccio del Duca di Norfolk (altro prestito eccezionale), che è la quintessenza della sua squisita immaginazione, si fondono motivi romani come la Piramide Cestia e un Arco di Trionfo con accenti rinascimentali; motivi neo palladiani e veneziani, con al centro una figura in primo piano che «è una delle più carismatiche e affascinanti di Canaletto». E la curatrice Bożena Anna Kowalczyk conclude: «Si pensa spesso a Canaletto solo come al vedutista di Venezia, mentre è uno dei più noti e importanti artisti del Settecento europeo».