Bruno Spoerri, classe 1935, è uno dei pionieri del jazz svizzero. Oltre ad essere un ottimo sassofonista è anche un didatta e un ricercatore d’esperienza. È opera sua, tra l’altro, il più importante libro sulla storia del jazz in Svizzera mai pubblicato, Jazz in der Schweiz. Geschichte und Geschichten (il Ticino vi figura grazie a un bel saggio di Aldo Sandmeier). L’occasione di interpellare Spoerri ce la offre quest’anno il conferimento al musicista zurighese dello Swiss Jazz Award 2017. Il premio gli è stato consegnato ad Ascona, durante il festival jazz (www.jazzascona.ch).
Bruno Spoerri, come si sente a JazzAscona, patria del jazz classico, uno sperimentatore come lei? Quali sono i suoi rapporti con questo tipo di jazz «tradizionale»?
Beh, le mie prime esperienze di contatto con il jazz erano state con Nat King Cole... poi sono arrivati Stan Kenton, Gerry Mulligan, Duke Ellington, Count Basie, Lionel Hampton e il Jazz at the Philharmonic. I miei primi idoli (dopo Charlie Parker) erano Lee Konitz, Gerry Mulligan e questa musica degli anni 50 e 60 è ancora alla base di tutto ciò che faccio. Ho suonato per anni dixieland e swing, ho persino militato in gruppi blues e rock e potrei mettermi a farlo anche oggi. Ad Ascona ci presenteremo con un gruppo e un repertorio che si ispira alla musica degli anni 50: con ciò voglio proprio mostrare che la storia del jazz possiede una propria continuità interna.
Il premio che le è stato assegnato considera i lunghi anni della sua presenza nella scena jazz nazionale, ma anche il suo importante ruolo di studioso e storico del jazz. Come entra la storia del jazz nella sua musica, e in che modo il suo lavoro di compositore ha influenzato la sua scrittura?
La musica che si ama da giovani rimane per tutta la vita come base per ogni esperienza musicale. Quindi il centro della mia musica rimane legato al be bop, al cool jazz e all’hard bop. Come docente di Storia del jazz nella Jazz School di Lucerna ho imparato moltissimo sui musicisti delle origini e questo mi ha permesso di superare molti pregiudizi sulla loro opera. Da lì poi è nato anche il mio interesse per una più approfondita ricerca sulla storia del jazz: mi sono accorto del fatto che molto di quanto è successo nella storia del jazz svizzero potrebbe andar perso se non viene raccolto ed elaborato. Inoltre, credo che il mio essere musicista mi abbia evitato alcuni errori, compiuti da ricercatori che non possiedono una vera pratica strumentale.
Uno dei tratti più importanti del jazz svizzero è il suo alto coefficiente di sperimentazione: gli svizzeri insomma, in campo musicale, sembrano molto avventurosi...
La Svizzera ha permesso a numerose personalità originali di svilupparsi. Ciò ha forse una relazione con il fatto che da secoli non abbiamo avuto dei regnanti a cui doverci piegare, o forse c’entra anche la dimensione ridotta della nostra terra. D’altro canto si può dire forse che la radicalità è un altra forma (se non l’inverso) del conservatorismo. Fino agli anni 80 come musicista jazz era praticamente impossibile sopravvivere. Si doveva necessariamente essere polivalenti, e in questo modo si sono allargati gli orizzonti dal più ristretto ambito jazzistico. Musicisti come George Gruntz, Pierre Favre, Hans Kennel e altri hanno cercato sempre nuove vie di espressione. Io stesso ho esplorato altre dimensioni artistiche grazie al mio lavoro di compositore. Altrettanto importanti si sono dimostrati i contatti con l’estero. Noti ad esempio che quasi tutti i migliori batteristi svizzeri hanno lavorato all’estero.
Una delle cose mi ha sempre molto incuriosito è il suo penchant per l’elettronica e l’uso del computer nel jazz: non esiste una contraddizione tra la libertà espressiva jazzistica e la rigidezza della programmazione elettroacustica?
Da bambino pensavo che da grande mi sarebbe piaciuto diventare un mago. Mi piaceva il clown Michele Cemin, che sapeva suonare molti strumenti contemporaneamente. Questo vale ancora oggi. Vorrei incantare con la mia musica. E voglio poter suonare molti oggetti contemporaneamente. La mia musica elettronica è diversa da ciò che fanno gran parte degli altri compositori. Non utilizzo elementi precostituiti e non mi nascondo dietro il computer. Lo chiamo «Computer Assisted Jazz» e ciò significa che improvviso usando il computer come aiuto per l’espansione delle mie possibilità. La programmazione significa per me costruire strumenti con cui posso inventare spontaneamente della musica. E io so di saper suonare con tutti quei musicisti che sanno improvvisare. In ogni caso ha funzionato con Marco Zappa, Julian Sartorius, con la rapper Big Zis, con DJ inglesi, percussionisti indiani e africani, ecc.
Facciamo finta che insieme al Jazz Award gli organizzatori di JazzAscona le permettano di realizzare un suo sogno impossibile: una jam session con un sassofonista famoso, uno dei grandi del passato. Chi sceglierebbe tra Lester Young, Eddie Harris e John Coltrane?
Senza alcun dubbio Lester Young. Per le sue melodie apparentemente semplici, il suo swing innato, la sua forza espressiva, il suo uso misurato delle note. Mi piace molto Coltrane, ma non ho mai voluto suonare come lui: il mio modo di improvvisare è legato all’armonia. Non sono mai riuscito a familiarizzare con l’improvvisazione modale. Eddie Harris mi è piaciuto molto durante un periodo della mia vita, e attorno agli anni 70 ho anche cercato di suonare come lui, ma non mi ha mai toccato intimamente come Lester Young. Del resto ho suonato molte volte con Dexter Gordon, e non mi sono mai sentito così piccolo come vicino a lui...
Che impressione ha della scena jazzistica attuale, in particolare in rapporto ai giovani musicisti che escono dalle scuole di jazz?
Penso sia importante che i giovani musicisti percorrano la loro strada e non rimangano legati alle vecchie forme musicali. Oltre a questo però devono conoscere la storia del jazz, altrimenti ripeterebbero cose, reinventerebbero cose che esistono già da tempo. Il problema dei giovani musicisti è che hanno studiato molto, sanno così tanto da fare un po’ fatica a capire chi siano veramente. È una cosa che ho osservato spesso; musicisti ad esempio che vogliono suonare hard bop ma pensano che per avere un sound della West Cost basti suonare forte e in modo rozzo. Questo dipende anche dalla circostanza che non possono misurarsi con i musicisti veri che suonavano quello stile: lo conoscono solo di seconda mano. Il jazz è sempre stato come una spugna, che assorbiva gli influssi esterni, e deve rimanere così. Non è così importante che nome gli si dà (persino la canzone che ha vinto di recente il festival Eurosong viene ritenuta jazz...) ma è importante che rimanga vitale.