Dove e quando
Maya, un linguaggio per la bellezza. A cura di Karina Romero Blanco. Verona, Palazzo del Gran Guardia. Fino al 5 marzo 2017. Catalogo Piazza Editore e Kornice srl. www.mayaverona.it


Un’antica bellezza precolombiana

Nel Palazzo della Gran Guardia di Verona un affascinante percorso per scoprire l’espressione figurativa dei Maya
/ 30.01.2017
di Marco Horat

Un’infilata di saloni in un antico palazzo del centro storico all’ombra dell’Arena. Al suo interno una serie di vetrine e di installazioni corredate da semplici didascalie, che presentano 250 reperti artistici e architettonici provenienti da vari musei messicani e riguardanti la cultura Maya, sviluppatasi tra la penisola dello Yucatàn, Belize, Guatemala, Honduras e El Salvador in un periodo compreso tra il II millennio a.C. e la metà del ’500, quando un pugno di spagnoli guidati da Hernan Cortez conquistò l’intero Messico. Questa in sintesi la spoglia mostra di Verona – riferita soprattutto al Periodo Classico e Post-classico – che reca un titolo accattivante quanto generico: «il linguaggio della bellezza», prendendo a pretesto il fatto che il corpo umano è rappresentato in quasi tutte le manifestazioni artistiche dei Maya con intenti estetici: sui monumenti, sulla ceramica, sulle sculture, sulle stele, sulle pitture murali (nella caratteristica scrittura con glifi) e sulla pelle stessa degli attori tramite tatuaggi o scarificazioni rituali.

Rappresentazioni antropomorfe, zoomorfe, di elementi della natura o di esseri mitologici che vanno visti sì con un occhio di riguardo per la bellezza intrinseca della quale sono portatori, ma in una visione antropologica moderna anche quali testimonianze di una cultura che si rapporta al complesso mondo dei simboli, tra l’altro in continua evoluzione come del resto lo sono tutte le culture. Per questo, credo, la visita di una mostra andrebbe integrata con letture di testi appropriati (ne esistono per tutti i livelli di curiosità) ed eventualmente con conoscenze dirette della realtà; nel caso dei Maya i loro discendenti sono tuttora una componente essenziale del patrimonio culturale del Messico moderno.

I Maya sono noti per la loro inconfondibile scrittura, tra l’altro decifrata solo il secolo scorso, per le conoscenze matematiche e per i sistemi di calendario dei quali si è tanto parlato, a sproposito, nel 2012 quando gli apocalittici paventavano una presunta fine del mondo. Ma da qualche tempo vi è da parte degli studiosi un grande interesse anche per le rappresentazioni artistiche dei Maya, «a partire dall’individuazione dei maestri, delle scuole e degli stili con la possibilità di rapportarsi alle opere attraverso una lettura storico-artistica e non solo archeologica» dei ritrovamenti. Un’operazione che ricalca analoghe iniziative messe in campo nel passato per studiare illustri culture dell’antichità.

La mostra di Verona, organizzata quasi vent’anni dopo la più famosa che si tenne a Venezia, è divisa in quattro sezioni tematiche: il corpo come tela (i vari significati delle acconciature e delle pitture corporali), il corpo rivestito (abiti, copricapi e gioielli quali simboli di regalità o potere), i rapporti con il mondo animale (simboli cosmici e magici) e i rapporti con le divinità (l’aldilà e le forze occulte che governano le vite degli uomini).

Il racconto si snoda grazie alla presenza in mostra di oggetti di grande valore artistico e culturale, frutto anche di scoperte recenti, accompagnati da testimonianze classiche della cultura maya: sculture in pietra, stele monumentali, elementi architettonici, figure grandi e piccole in terracotta, vasi, maschere in giada, collane e gioielli vari, strumenti musicali, incensieri e testi che sono dedicatori o celebrativi. Tra i pezzi più importanti c’è una testa che ritrae Pakal il Grande da giovane (fu re di Palenque e visse tra il 603 e il 683 d.C.), una maschera composta da diverse tessere di giada con inserti di ossidiana e conchiglie che veniva posta sul volto del re defunto per garantirgli il passaggio nell’aldilà, un ritratto di adolescente in pietra calcarea ritrovato sul sito di Cumpich del Periodo Classico Tardo (600-900 d.C.) e una figura di grandi dimensioni con un prigioniero portastendardo da Chichén Itzà.

Ma credo che ognuno possa e debba, per gustare la mostra, lasciarsi sorprendere dalle forme talvolta fantastiche e dai colori dei vari oggetti esposti, come la grande terracotta con un uomo-scimmia urlante che reca nella mano destra un pennello e nella sinistra la conchiglia per l’inchiostro, a significare la passione dei maya per la scrittura artistica, certo riservata alle élite, con la quale venivano comunque ricoperti i monumenti civili e religiosi; o lo strano animale dal muso lungo, ritto sulle zampe posteriori che guarda di sottecchi, immortalato mentre cerca di nascondersi dietro quelle anteriori in un gesto spontaneo di pudore.