Dove e quando
David Hockney, Tate Britain, Londra. A cura di Chris Stephens e Andrew Wilson con Helen Little. Orari: 10.00-18.00. Fino al 29 maggio. Cataloghi Tate Publishing £ 40/29.99. www.tate.org.uk


Una sfida destabilizzante

L’opera di David Hockney esposta alla Tate Britain di Londra
/ 06.03.2017
di Gianluigi Bellei

David Hockney: se non lo conoscete segnatevi questo nome. Sembra sia il più grande artista vivente. Non a caso la Tate Britain di Londra – attenzione la Tate Britain, che si occupa di artisti storicizzati come per esempio Turner, e non la Tate Modern che espone personalità contemporanee – gli dedica un’esaustiva esposizione. Mostra che andrà poi al Centre Pompidou di Parigi e infine al Metropolitan Museum di New York. Tre musei fra i maggiori al mondo per sancire così la definitiva consacrazione di Hockney nell’Olimpo dell’arte. Proprio in occasione dei suoi 80 anni. Contemporaneamente l’artista sta lavorando a una vetrata della chiesa protestante londinese di Westminster Abbey, simbolo della monarchia, e Bradford la sua città natale gli dedicherà una mostra permanente nella Cartwright Hall.

Insomma un viaggio a Londra è quasi d’obbligo, anche perché il suo lavoro va visto complessivamente e non per singolo quadro. Solo così infatti ci si può fare un’idea del suo pensiero e delle innovazioni che, anche in tarda età, continua a proporre. I singoli dipinti infatti, soprattutto i primi, possono risultare stucchevoli, commerciali, un tantino banalotti, in sintesi molto pop. In realtà siamo di fronte a qualcosa di maggiormente complesso e articolato che la mostra londinese rende bene donandoci una delle più belle esposizioni viste recentemente.

Ma chi è Hockney? Nasce da una famiglia metodista il 9 giugno 1937 a Bradford nello Yorkshire dove studia al College of Art per poi proseguire al Royal College of Art di Londra. Compie viaggi a Berlino, a New York – dove conosce Andy Warhol, Dennis Hopper e Peter Fonda – e in Egitto. Nel 1964 visita per la prima volta Los Angeles che definisce «la nursery della moderna omosessualità». Qui prendono corpo le sue fantasie che rappresenta soprattutto attraverso l’acqua. A Bigger Splash del 1967 mostra uno spazio definito e razionale con una piscina, una casa con vetrate, due palme. Si nota l’assenza di figure ma soprattutto il getto d’acqua che si alza come uno spruzzo dopo il tuffo; simbolo di un’eiaculazione. Torna a Londra e in seguito di nuovo a Los Angeles, dove vive tuttora.

La mostra londinese è divisa in 12 sezioni organizzate cronologicamente. Si parte con gli anni 1960-1962 nei quali sperimenta una sorta di astrazione con numeri e lettere che fanno da contraltare a figure con oggetti fallici. Segue la serie denominata Domestic Scenes nelle quali rappresenta il desiderio gay ritratto in un ambiente consuetudinario. I dipinti sono stilizzati, i colori accesi, gli oggetti quasi sospesi nell’aria. Eloquente Los Angeles del 1963 dove un uomo lava la schiena ad un altro sotto la doccia. Dal 1964 Hockney si trasferisce a Santa Monica, sempre nell’area di Los Angeles. Subisce l’influsso del suo ambiente moderno e geometrico ma anche dei giovani e atletici uomini. I dipinti si fanno minimalisti; giocano sulla trasparenza dell’acqua e la semplificazione delle forme.

Negli anni Settanta inizia a pitturare con l’acrilico e realizza una serie di ritratti di coppia. Grandi tele dove la resa pittorica è meticolosa quanto rarefatta e gli intrecci fra le figure rappresentate enigmatici e silenziosi. Emblematici i ritratti di Christopher Isherwood e il partner Don Bachardy del 1968 tanto quanto quello del 1972 dove l’artista sancisce la dolorosa separazione dal suo boyfriend (lo studente d’arte Peter Schlesinger, definito un vero californiano; un bellissimo efebo).

Nel 1980 si interessa al cubismo di Picasso e inizia una serie di fotografie realizzate con la Polaroid che assembla una accanto all’altra sino a realizzare un mosaico spezzettato di frammenti sfasati fra loro. All’inizio in maniera piuttosto organica e razionale e in seguito più sfaccettata e irregolare. Billy and Audrey Wilder del 1982 è composta da 144 immagini. Contemporaneamente dipinge gli immensi spazi naturali americani come il Grand Canyon. Ritorna all’olio e i colori si fanno maggiormente accesi e vitali. Gli spazi vengono realizzati unendo diverse tele per raggiungere dimensioni straordinarie, impressionanti (tre metri per cinque per esempio).

Nel 2006 rientra nel nativo Yorkshire e i paesaggi ritornano calmi e ariosi. Nel 2010 questi si fanno mobili, stranianti, elettronici. Attraverso una serie di video multi-screen e diversi monitor filma lo stesso paesaggio durante il miracolo delle quattro stagioni. 36 video sincronizzati per un’opera immaginifica che riecheggia le cattedrali di Monet. Poi torna a Hollywood. Gli ultimi lavori sono realizzati con un miscuglio di tecniche diverse utilizzando l’iPhone e in seguito l’iPad assieme ai classici pennelli.

I risultati sono strabilianti, come il metodo, sempre più intrigante e deviante. La realizzazione dell’opera segue strade tortuose e multiformi e crea delle analogie e delle contraddizioni volutamente ambigue. Per esempio fotografa dei personaggi con l’iPad poi li dipinge e mette la stessa foto all’interno del quadro o viceversa. Card Players #3 del 2014 è un acrilico su tela raffigurante dei giocatori di carte attorno a un tavolo; The Card Players del 2015 è una fotografia degli stessi personaggi reali con la foto del quadro precedente appesa al muro. Infine dipinge un quadro con il pennello, lo fotografa con l’iPad che utilizza per ridipingerci sopra, grazie all’applicazione Brushes, lavorando con le dita. Nell’ultima sala, in penombra, si può ammirare in diretta il procedimento usato e seguirne lo svolgimento. Stupefacente, memorabile, incredibile, destabilizzante, voluttuoso (termine che gli piacerebbe molto).

La mostra scandisce così il percorso di un artista che non si accontenta dei risultati raggiunti, ma sa sperimentare con delle buone e solide basi artistiche (cosa non del tutto scontata: molti artisti che utilizzano i nuovi media non sanno assolutamente disegnare), ma soprattutto non ripiega sui banalismi concettuali, sulle facili soluzioni o peggio sul gigantismo che fa leva sull’impressione piuttosto che sull’estetico. Senza nostalgie, come dice lui, per vivere il proprio tempo.

Un artista versatile che non manca di stupire. Bella l’idea di dedicare la prima sala a una summa del suo lavoro con opere che vanno dal 1963 al 2014.