Anche in questo dibattito, più che mai attuale nell’era delle code davanti ai musei, l’effetto «politically correct» ha lasciato un segno inconfondibile. L’ondata del revisionismo, che ha investito le istituzioni in generale, non ha risparmiato il museo, colonna portante della memoria storica: oggi, però, da adeguare alla «decolonizzazione culturale».
Un’operazione che vede gli ex-imperi coloniali, Francia, Inghilterra, Germania, Olanda, impegnati a rifarsi una verginità morale, confessando gli errori e gli orrori commessi. Cioè saccheggi di oggetti, appartenenti al patrimonio delle culture e tradizioni locali, e strappati persino dalle sepolture nei cimiteri. Da qui la disponibilità a restituire questi beni ai legittimi proprietari. Una crociata riparatrice di cui si fece paladino Emmanuel Macron: con il discorso pronunciato all’università di Ouagadougou, Burkina Faso, in cui proclamava il doveroso rimpatrio delle opere trafugate. Era il 30 novembre 2017. Alle promesse, però, non seguirono i fatti.
In realtà, le restituzioni si scontrano con ostacoli d’ordine pratico, sia logistico sia professionale. In molti casi, i musei africani non sono attrezzati per ospitare i pezzi da esporre e per certificarne l’identità. Ci si trova alle prese con un problema complesso, esposto al rischio di sbrigative strumentalizzazioni ideologiche. Da cui metteva in guardia un servizio apparso sulla «Neue Zürcher Zeitung» del 31 luglio scorso: dal titolo sorprendente: Nichts alles, was im kolonialen Kontext steht, muss zurückgegeben werden («Non tutto ciò che si trova nel contesto coloniale dev’essere restituito»).
Il giudizio spetta a Hermann Parzinger, responsabile dei beni culturali in Prussia: sfidando gli umori del momento, racconta come sono andate le cose nel tortuoso corso della storia. Dai saccheggi che, non di rado, avvenivano con la complicità degli indigeni che, a partire dagli anni 60, con l’indipendenza nazionale maturarono la consapevolezza di aver subito un grave danno, la perdita di un pezzo di storia. E quindi l’esigenza di riavere, al più presto, oggetti che, nel frattempo, avevano trovato casa nei musei europei, protetti e valorizzati. Musei che, intanto, si trovano a fare i conti con la correttezza politica e le sue derive.
Il discorso, infatti, si sta allargando. Considerato espressione d’immobilismo e di potere, il museo è nel mirino di una contestazione antisistema e revisionista, dalle motivazioni pretestuose ma dagli effetti rovinosi. Si pensi a quanto avviene nelle università americane, dove si abbatte la statua di Colombo, simbolo del colonialismo. In proposito, Parzinger parla di «emotivizzazione»: «Si punta il dito contro i musei dimenticando tutto quello che hanno fatto». Un evidente paradosso: istituzioni, dal British Museum di Londra alla Museumsinsel di Berlino, che avevano salvato opere, proponendole alla collettività, sono sotto processo. In attesa di una sentenza che potrebbe significare la restituzione a un proprietario, a suo tempo ignaro.
Anche in Svizzera, paese senza passato coloniale, non estraneo però al traffico di reperti archeologici e di opere trafugate, l’interrogativo «restituzioni sì o no», fa discutere. L’abbiamo sottoposto alla competente attenzione di Andrea Bignasca, direttore dell’Antikenmuseum di Basilea.
Qual è la sua posizione in generale?
Il tema, molto complesso, va inserito in un contesto più ampio, rispetto a quello legato alla cultura, in generale, e ai musei, in particolare. Comporta aspetti storici, giuridici, politici e anche etici, in gran parte irrisolti, anche attraverso le restituzioni, e che solo adesso si comincia ad affrontare. Tutta la storia dell’umanità è un seguito di ingiustizie e soprusi.
È giusto rifletterci, per non ripetere gli stessi errori. Ma è impossibile riparare veramente il male inflitto. Perché una giovane tedesca, oggi, dovrebbe pagare per ciò che ha fatto suo nonno, ufficiale delle SS, 80 anni fa? E gli italiani resi responsabili delle guerre di conquista condotte dalle legioni romane? Per eventi più vicini, è possibile pensare a riparazioni almeno a livello simbolico: per esempio, con restituzioni magari parziali, attraverso cooperazioni culturali o scambi di ricerca. Riguardo al passato lontano, non c’è rimedio sensato. E chi annuncia di voler intervenire, lo fa per interessi politici propri . Spesso hanno poco a che vedere con la tragedia originaria.
In veste di responsabile dell’Antikenmuseum si è trovato confrontato con richieste di rimpatrio?
Senz’altro, in almeno tre o quattro situazioni diverse. Ogni caso merita una valutazione a sé. Il rimpatrio diventa un’opzione possibile se il richiedente può dimostrare di essere stato derubato e se l’attuale proprietario ha acquistato in malafede. Sono fatti difficili da appurare: spesso sono passati molti anni, le persone coinvolte sono defunte, manca la documentazione o la si fa sparire. In simili casi, si cerca di far valere il buon senso, indipendentemente dalle leggi, con l’intento di stabilire cooperazioni utili per entrambe le parti.
Nel 2008, in seguito a ricerche scientifiche in archeo-logia, condotte da un team internazionale, abbiamo restituito all’Italia 137 terrecotte figurate, finite da noi, tramite il commercio antiquario: si venne poi a sapere che provenivano da un tempietto arcaico di Cori nel Lazio. La restituzione è avvenuta in accordo con le autorità italiane e grazie a una collaborazione scientifica internazionale: risultato finale, la ricostruzione del tempietto che valorizza il territorio di Cori.
Le sembra che, nel fenomeno restituzioni, la politica (o l’ideologia) abbia una parte rilevante?
Sono convinto che, purtroppo, l’aspetto politico o ideologico sia forte. Il discorso di Macron è rivelatore: la promessa di un intervento immediato a favore dei «fratelli» africani, che i francesi considerano partner tradizionali. Il rapporto Felwine Sarr e Bénédicte Savoy dava indicazioni radicali: restituire tutto, senza se e senza ma. Impegno non rispettato, al contrario della Germania.
Altri paesi, come il Belgio, sembrano vivere sulla luna. A Tervuren, nei dintorni di Bruxelles, si è allestito un museo, dove non solo si espongono tutti i reperti sottratti al Congo, colonia belga, ma si mette in buona luce Leopoldo II, che aveva autorizzato i saccheggi. Immediata la reazione del presidente congolese che vuole la restituzione. Nella diatriba Francia-Italia sul caso Leonardo, in cui Roma chiede il rimpatrio, perché l’artista era italiano, non credo che ci siano moventi politici.
In questo dibattuto problema, mancano normative di legge. Esistono dichiarazioni di carattere etico, sottoscritte da quasi tutti gli Stati: convenzione UNESCO del 1970, codice dell’ICOM o i principi di Washington. Si tratta sempre di semplici codici di condotta morale non implicano l’obbligo di adottarli, non hanno insomma valore di legge.
Quanto alla Svizzera, dal 2005 esiste la legge sul trasferimento dei beni culturali, non retroattiva, e regola solo in generale il rapporto tra la Confederazione e altri Stati. Ogni caso dipende dal volere dei singoli Paesi. In Europa mancano normative concernenti la restituzione di opere d’arte rubate sia durante la Seconda guerra mondiale sia in situazioni analoghe, come durante l’era coloniale. E poi perché fermarci a quel periodo? Sarebbe un discorso infinito.
Parzinger parla di «emotivizzazione» nei confronti del museo, istituzione e centro di potere: condivide questo giudizio?
Pienamente. I musei, oggi al centro della discussione, stanno sul banco degli imputati e possono solo giustificarsi sulla difensiva. La reazione dell’opinione pubblica, emotivamente comprensibile, non è corretta. Si dimentica che tante opere sono arrivate in Europa da scavi regolari, secondo accordi conclusi alla luce del sole con le parti in causa.
Si dimentica il lavoro di conservazione, presentazione, ricerca e pubblicazione svolto dai musei. Il nostro sapere attuale, inclusa la presa di coscienza, si basa su questo lavoro pionieristico. È giusto interrogarsi sul ruolo dei musei, ma tenendo conto che tutto è avvenuto con il consenso dell’intera società, consapevole della necessità di conoscere la sua evoluzione nel corso dei secoli.
Un’ultima domanda: in Svizzera, e in Ticino in particolare, vanno di moda i «minimusei» dedicati non solo alla civiltà contadina ma anche a oggetti, più o meno curiosi. Cosa ne pensa?
È uno sviluppo interessante e necessario per la cura delle traduzioni locali. Non va dimenticato, tuttavia, che anche in passato, queste tradizioni hanno subito i continui influssi di migrazioni, guerre, commerci e interessi che provenivano da fuori. Limitarsi alla sfera locale significa voler conoscere la Svizzera soltanto attraverso la sua arte popolare: sarebbe una restrizione fatale.
La democrazia, che noi oggi pratichiamo, è nata 2500 anni fa e le nostre istituzioni politiche e giuridiche derivano dal mondo romano: tanto per fare un paio di esempi. Chi alza muri rischia di ritrovarsi, lui stesso, in carcere.