Una piccola fedeltà

Luca Saltini, al suo quarto romanzo, prova a raccontare la Romania di Ceaușescu
/ 09.07.2018
di Pietro Montorfani

La controprova non ce l’ho, perché anche io, come lettore, condivido la medesima condizione di ignoranza che l’autore candidamente ammette nella Nota finale: «La Romania del libro – a parte qualche elemento geografico desumibile da una cartina e qualche dato storico di facile accesso – abita soltanto nella mia mente. L’importante è che per me fosse credibile come ambiente per questa storia». Pare cosa da poco, ma creare un ambiente credibile, cioè un luogo dove l’aria circoli, i personaggi respirino, la luce cambi con il passare delle ore, è l’essenza stessa dello scrivere, la sfida più grande e decisiva per un narratore.

La controprova non ce l’ho perché anche io, della generazione di Saltini, della Romania di Ceaușescu ho soltanto ricordi sporadici filtrati dalla stampa dell’epoca, qualcosa di più simile a un’atmosfera, a un mood (triste), che non a un contesto storico seriamente inteso. Qualcosa che sa molto di anni Ottanta, di Chernobyl, di Perestrojka. Eppure, forse proprio per questa ragione, posso dire senza esitazione che questo libro «funziona». Funzionano i personaggi e funziona il contesto, funzionano i personaggi in rapporto al contesto, che non è dato soltanto da una somma di informazioni storicamente attestate (altrimenti ogni saggio storico sarebbe una narrazione affascinante, mentre raramente è così). Senza forse accorgersene, Saltini punta il dito proprio al centro della questione, il realismo letterario, che non ha nulla a che spartire con la realtà dei fatti.

Paradossalmente, e questo piccolo libro ce lo ricorda, in letteratura una cosa è vera in modo direttamente proporzionale alla convinzione con cui lo scrittore la crede tale (Manzoni che toglie virtualmente dal cassetto i personaggi che vi aveva riposto la sera prima). Non serve altro, in fondo, per scrivere un buon libro, che questa misteriosa convinzione, questa «piccola fedeltà» nei confronti di un proprio mondo interiore.

Non si vuole con questo togliere importanza al lavoro di ricerca, sempre più comune nei narratori contemporanei, di chi si documenta a lungo prima di iniziare la stesura di un romanzo.

Sono certo che anche Saltini, storico di formazione, nonostante questo elegante understatement si sarà fatto le sue brave letture. Eppure non ha lasciato che la componente documentaria prendesse il sopravvento sul piacere dello scrivere, sullo stile o sullo scavo psicologico dei personaggi. Basta un flash: «Gli ho detto di prendersi alcuni giorni liberi per seguire sua moglie, ma la sera me lo sono ritrovato di nuovo in ufficio. C’è rimasto tutta la notte e così ha fatto per la settimana seguente, fino a quando Erika è stata dimessa. Di giorno stava con lei. Di notte veniva a lavorare. Mi ha detto che non poteva stare a casa senza sua moglie. Gli veniva l’ansia, un senso di vuoto soffocante. Povero Lenz. Sposato con la dea del ghiaccio, innamorato di quegli occhi freddi, capaci di scaldare soltanto lui».

Lenz, per non dire di sua moglie Erika, è un personaggio marginale del romanzo, eppure vive con grande forza in queste poche righe. Questo è il merito di Saltini, capace – come era avvenuto per Tattoo (2012) – di imprimere vitalità ai suoi personaggi con pochi dettagli selezionati e una narrazione in presa diretta, quasi cinematografica. Non tutto il libro è di pari pregnanza (un recensore più severo di chi scrive potrebbe sottolineare il fatto che, nei primi capitoli, il libro stenti un po’ a decollare) ma nemmeno mancano pagine memorabili, soprattutto attorno alla bellissima Achilina e al suo tormentato amante italiano.

Confezionato in modo efficace dall’editore Giunti, sin dalla copertina, è un libro che avrà successo e saprà farsi apprezzare per più ragioni. Per quel che ci compete, giunto oramai alla sua quarta prova narrativa, Luca Saltini è diventato a tutti gli effetti uno scrittore importante tra i non pochi comparsi di recente nella Svizzera di lingua italiana.