Eugène Delacroix è il pittore della passione. Charles Baudelaire, suo grande sostenitore, lo descrive come creatore di gesti sublimi, ma anche dell’invisibile, dell’impalpabile, attraverso il sogno, i nervi e l’anima del segno e del colore. Il genio dell’arte francese, insomma. Un artista immenso che ci ha lasciato una produzione di più di ottocento pitture, mille disegni e moltissimi scritti. Sì, perché era anche un letterato, – opere teatrali e racconti –, un articolista – scriveva su varie riviste d’arte –; in più ha lasciato un ricchissimo diario e molte lettere. Nella Revue des Deux Mondes del 15 luglio 1857 elabora la personale concezione estetica contraria al bello statico del neoclassicismo per imprimergli la sua visione romantica. Scrive: «Noi vediamo il bello soltanto attraverso l’immaginazione dei poeti e dei pittori; il selvaggio lo incontra a ogni passo della sua vita errabonda». E il selvaggio rappresenta l’anima del suo furore, del suo pàthos, che spazia fra realtà e illusione. La sua «grandiosità visionaria» lo fa vivere fra eccitamento e affaticamento, come precisa Elena Pontiggia. Tra il fragore delle armi, i nitriti dei cavalli, i ruggiti delle tigri e il silenzio estatico degli ultimi paesaggi e nature morte. Delacroix cresce in un ambiente colto e cosmopolita. Legge e ama autori come Shakespeare, Dante, Goethe, Schiller, Walter Scott e Byron, poeta quest’ultimo che ha un’influenza importante nello sviluppo del suo lavoro.
La maggior parte delle sue opere si trova al Louvre di Parigi. Dopo la retrospettiva, sempre al Louvre, del 1963 organizzata per il centenario della morte, chi vuole comprendere e ammirare appieno il lavoro di questo vulcanico artista deve far capo allo stesso museo che fino al 23 luglio presenta 180 opere provenienti anche dai musei francesi di Lille, Bordeaux, Nancy e Montpellier, con prestiti dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna, dalla Germania, dal Canada, dal Belgio e dall’Ungheria.
L’esposizione permette di dare una nuova interpretazione al suo lavoro. Lo divide in tre periodi. Il primo decennio dal 1822 al 1834 consistente nella rottura con il sistema Neoclassico mediante quelle grandi tele che lo porteranno al trionfo. Il secondo, dal 1835 al 1855, è caratterizzato da opere monumentali pubbliche e, infine, gli ultimi anni di sintesi fino al 1863 dominati dal paesaggio e dalle nature morte di carattere più introspettivo. Questa suddivisione permette una nuova lettura che va oltre quella tipicamente romantica che divideva le opere per genere. Delacroix appare così certamente come un romantico ma anche come un realista, un eclettico e uno storicista.
La mostra si svolge nelle sale apposite dell’ala Napoléon. Alcune opere però, data la loro imponenza, non sono state spostate e si trovano ancora nelle loro sale. Fra queste, ovviamente, le tele del soffitto della galerie d’Apollon raffiguranti appunto Apollon vainqueur du serpent Python. Poi la splendida Mort de Sardanapale e la Prise de Constantinople che eccezionalmente sono affiancate a Le Christ au Jardin des Oliviers, restaurata per l’occasione e trasferita dalla chiesa Saint-Paul-Saint-Louis nel quarto arrondissement nella sala 77 al primo piano dell’ala Denon.
In ogni caso Delacroix è un artista controverso. Sia all’inizio della carriera quando la critica giudica La Mort de Sardanapale del 1827 negligente nel disegno, con errori di prospettiva e una grande confusione nel primo piano o La Liberté guidant le peuple del 1830 che mostra una donna ignobile dalle forme grossolane, con la pelle sporca e con quella pelosità delle ascelle che incita i commentatori a usare un vocabolario decisamente triviale. Sia al termine della carriera quando, dopo aver celebrato le grandi macchine romantiche degli esordi, non si capacita di quei dipinti dal formato modesto, intrisi di tristezza e nostalgia.
Diversi i temi che ricorrono nei dipinti di Delacroix. La guerra innanzitutto: quella dell’eroe vaticinata da Lord Byron come quella per l’indipendenza della Grecia con le Scènes des massacres de Scio del 1824 o La Grèce sur le ruines de Missolonghi del 1826, omaggio proprio a Byron caduto a Missolonghi due anni prima. L’erotismo, come ne La Mort de Sardanapale dalla composizione orgiastica e terribile. Delacroix ama la licenziosità dell’Ariosto e la sensualità del Tiziano. È giovane e la pulsione erotica dei suoi rapporti sessuali con le prostitute e le modelle è palpitante. Nei suoi scritti per designarli usa il termine italiano chiavatura. Il dramma orgiastico de La Mort de Sardanapale si traduce in una pasta pittorica cremosa con delle colature liquide, dai colori vibranti e a volte diafani. L’esaltazione rivoluzionaria, come ne La Liberté guidant le peuple dove la composizione classica a triangolo vede la figura femminile che incita il popolo durante la rivoluzione parigina del 1830 correndo su di un cumulo di cadaveri. Forse Delacroix si rappresenta nel signore a destra con la bombetta e il fucile, forse no e dipinge la grandiosa tela solo per opportunismo. Sta di fatto che il quadro diviene un simbolo della Repubblica e un’allegoria della democrazia che si è imposto via via come mito universale. La composizione piramidale richiama Le Radeau de la Méduse di Jean-Louis Géricault del 1818-1819, come il piano di posa instabile e la figura centrale che agita un oggetto. Solo che in questo caso la massa delle figure non corre incontro a noi bensì verso l’orizzonte.
Nel 1832 Delacroix accompagna il conte de Mornay in una missione diplomatica in Marocco. Durante il soggiorno realizza una massa importante di disegni e acquarelli. Rimane incantato dal sole, dai colori, dalle scene di vita quotidiana. Si apre una nuova fase: quella del pittoresco, dell’aneddotico, dell’etnografico, che porterà con sé per il resto della vita assieme alle battaglie militari e alle lotte fra animali esotici. Segue un periodo nel quale il colore si riduce e le tenebre prendono il sopravvento. Le Christ au tombeau del 1847-1848 mostra la scena in un drammatico affastellarsi di figure al centro delle quali appare un Cristo livido e innaturale. Nella Pietà del 1842-1843 la pittura esprime la dissoluzione del corpo attraverso il dolore, come nei dipinti di Rosso Fiorentino.
Nel 1855 il regime del Secondo impero gli offre il privilegio di un’antologica all’Esposizione universale di Parigi alla quale partecipa con 42 dipinti. È la consacrazione del suo genio nazionale. Verrà poi eletto membro de l’Académie des Beaux-Arts. Gli ultimi anni sono pieni di nostalgia e alla brutalità dell’estetica realista di Courbet contrappone la virtù della memoria. Si ritira in campagna dopo i tumulti della rivoluzione del 1848. Realizza una lunga serie di dipinti floreali. Rappresenta bellissime donne nude al bagno, il mare, calmo e oscuro nello stesso tempo, ma soprattutto dipinge la serie di tele con quella barca in balia delle onde del lago di Tiberiade con Cristo e gli apostoli che sembrano sopraffatti dal destino. Prosegue il tema dell’artista incompreso, malinconico – la critica gli è di nuovo ostile – come in Ovide chez les Scythes del 1859.
Una sala è dedicata agli scritti e alle lettere che rivelano la complessità della sua figura e dei suoi rapporti sociali e personali. Un’altra alla litografia, tecnica che gli serve per creare un’atmosfera fantastica e una magia simile alle acqueforti di Rembrandt.
Bella mostra, forse un po’ soffocante; ottime le luci; interessante il catalogo, con anche l’indice dei nomi.
L’esposizione è organizzata congiuntamente dal Louvre e dal Metropolitan Museum of Art di New York dove verrà presentata, almeno in parte, dall’11 settembre al 6 gennaio 2019.