Dove e quando
Betye Saar. Uneasy Dancer, Fondazione Prada, Milano. A cura di Elvira Dyangani Ose. Fino all’8 gennaio 2017. Catalogo Fondazione Prada. www.fondazioneprada.org


Una danzatrice incerta

Betye Saar alla Fondazione Prada di Milano
/ 28.11.2016
di Gianluigi Bellei

… dadi, coltellini, orologi, pipe, chiavi, penne, foto, ventagli, collane, lucchetti, farfalle, ricami, capelli, guanti, bottoni, cammei, crocefissi in bronzo, clessidre, pesci in ceramica, perline…

Betye Saar ha compiuto da poco novant’anni. Espone alla Fondazione Prada di Milano. Forse pochi la conoscono, ma negli Stati Uniti è una celebrità. Ha ricevuto parecchi diplomi ad honorem da diverse università; le sue opere figurano nelle collezioni permanenti di più di sessanta musei fra i quali il Museum of Modern Art e il Metropolitan Museum of Art di New York; al suo lavoro sono state dedicate personali al Whitney Museum of American Art di New York e al San Francisco Museum of Modern Art. L’esposizione milanese, curata da Elvira Dyangani Ose e intitolata Uneasy Dancer, ovvero la danzatrice incerta, riunisce più di 80 opere realizzate fra il 1960 e il 2016.

Quattro pareti circolari racchiudono le sue scatole, le sue valigie, le sue gabbie al cui interno si trovano oggetti di tutti i giorni che raccontano la sua storia e quella della comunità afroamericana. Un lungo viaggio nella memoria a volte graffiante, a volte ridicolo, a volte aggressivo ma sempre sul filo di lana della storia e dei ricordi degli antenati africani e degli odierni immigrati in America. Il progetto della mostra, scrive la curatrice in catalogo, riflette le tre componenti della pratica artistica di Saar e cioè la sua militanza nel Black Arts Movement, «l’uso celebrativo di icone che rinviano al rituale e alla spiritualità» e il suo «approccio pionieristico al pensiero del cosiddetto Femminismo Nero».

Certo Los Angeles, la sua città, era percepita come il luogo delle opportunità, fino al 1965 quando è diventata il teatro della più grande rivolta afroamericana dell’epoca; scatenata da una semplice contravvenzione. Prima di questa ribellione il pensiero di Saar è stato influenzato dall’immigrato italiano Simon Rodia che ha costruito le Watts Towers. Trentatré anni durarono i lavori, dal 1921 al 1954, durante i quali Rodia assembla materiali di scarto come conchiglie, vetro, piastrelle per creare quelle diciassette torri eclettiche, una alta fino a trenta metri, in un quartiere disagiato di Los Angeles. Noah Purifoy un anno prima delle sommosse organizza una mostra sulla falsariga delle Watts Towers, ovvero con le opere degli artisti invitati eseguite con materiale di scarto, per dimostrare che «l’istruzione fondata sulla creatività è l’unico modo rimasto per ritrovare l’individuo in un mondo materialista».

Saar non partecipa all’esposizione ma ne rimane colpita. Le torri scatenano la sua immaginazione e la sua voglia di indagare il mistero. La spiritualità e i culti religiosi sono infatti alla base del suo operato; insieme ai rituali e all’attenzione verso il mondo femminile. Black Girl’s Window del 1969 è un grande pannello rettangolare diviso in dieci riquadri. In ognuno vengono rappresentati le stelle, i soli, le lune, e uno scheletro danzante, ma soprattutto nella parte più grande in basso troviamo il contorno di una testa femminile tutta nera dalla quale risaltano due occhi blu. Gli occhi blu nei volti dei neri, come scrive in catalogo Richard J. Powell, indicano «una visione spirituale e soprannaturale» che assieme allo scheletro, simbolo della morte, sono i temi sui quali lavora Saar. 

… biglietti di invito, collane, mappamondi, semi di albicocca, corde, candele, stelle, piccioni, orologi, piccoli fucili, bussole, coltellini, piccoli violini, cotone, tombole, bilance, ceri…

L’artista oltre a oggetti di uso quotidiano utilizza anche fotografie. Vecchie immagini sbiadite che in genere ritraggono afroamericani nella loro iconografia spicciola oltreché nelle visioni degradanti tipiche dei cimeli razzisti. Molte fotografie sono un’eredità della prozia Hattie Parson Keys. In Record for Hattie del 1975 Saar le fa un omaggio inserendo in una scatola una foto e gli oggetti raffiguranti l’amore dell’artista verso la famiglia: un cuore, una clessidra, un puntaspilli, un giro di perle, una foto…

Nel 1979 Houston Conwill intervista Saar per la rivista «Black Art» e la definisce una «somma sacerdotessa». Oramai viene da più parti considerata tra gli artisti maggiormente importanti del momento e diversi musei le dedicano significative personali. I suoi assemblaggi diventano sempre più grandi sino al 1977, anno nel quale inizia il progetto Mti Receives che prevede la partecipazione del pubblico alle sue installazioni.

I visitatori lasciano i loro oggetti accanto a quelli dell’artista e, di conseguenza, interagiscono con la sua vita e quella degli altri. Il passato come cerimonia e il presente come valore, così Saar fa della creazione artistica un rituale nel quale la traccia, la ricerca, il prelievo, il riciclo e infine il rilascio dell’opera sono la procedura del suo lavoro. Nell’invito alla mostra del 1980 Rituals. The art of Betye Saar allo Studio Museum di Harlem l’artista scrive: «Dal passato/Residui di cerimonie/Perdute/Il mistero che si scioglie/ E si svela/Emergere/Dall’ombra/Per affrontare/L’ignoto./Purificazione».

…piroghe, piume, uova, corvi, gabbie, uccelli, uomini neri, totem, serpenti, spade, scheletri di piedi, coccinelle, ex voto, mani di Fatima, quadrifogli, denti di squalo, pellicce, occhi, lune…

Mostra intrigante, come il luogo e i personaggi eccentrici che lo frequentano; soprattutto i giovani. Allestimento simpatico. Catalogo particolare, curato da Irma Boom. Accanto si possono visitare una selezione di opere di Edward Kienholz e Nancy Reddin Kienholz, con la sua «arte della repulsione» e la retrospettiva dedicata William N. Copley che include più di 150 opere.