Dove e quando.
Un secolo di jazz. La creatività estemporanea. Spazio Officina, Chiasso. Fino al 30 aprile 2017. Orari: ma-ve 14.00-18.00; sa-do 10.00-12.00 / 14.00-18.00; lu chiuso. www.centroculturalechiasso.ch


Un secolo con lo swing

Allo Spazio Officina di Chiasso, fino al 30 aprile dischi, film, fotografie, manifesti documentano la storia del jazz
/ 03.04.2017
di Alessandro Zanoli

È il primo oggetto, quello che attira l’interesse: l’esposizione «Un secolo di Jazz. La creatività estemporanea» che si è aperta allo spazio Officina di Chiasso mette ben in evidenza, all’inizio del suo percorso, il 78 giri centenario della Original Dixieland Jass Band. Il jazz, quello che molti definiscono il più originale contributo musicale della cultura americana del 900, trova in questo disco nero di lacca il suo tassello originario. L’incontro è un po’ deludente, inutile nasconderlo. Oltretutto, se osserviamo da vicino l’etichetta per trovare Livery Stable Blues (che le storie del jazz registrano come il primo brano di jazz mai inciso) dobbiamo girare intorno all’espositore e rivolgerci al lato B del disco. Il lato A è occupato infatti da un molto meno appariscente e conosciuto Dixieland Jass Band One-Step.

Ci sono molte altre occasioni in questa eclettica esposizione di sorprendersi e scoprire sfaccettature inconsuete in cui la cultura jazz si è manifestata. Il jazz non è solo musica, infatti, ma un movimento estetico che ha informato di sé le arti grafiche e plastiche, il cinema, i fumetti e la letteratura, per non parlare della meccanica strumentale e fonografica. La mostra di Chiasso è insomma un’occasione per dare al termine «jazz» un connotato estetico ampio e curioso. Prima dell’inaugurazione abbiamo incontrato Bruce Boyd Raeborn, scrittore e curatore dello Hogan Jazz Archive dellla Tulane University di New Orleans, che ha offerto all’esposizione alcuni «reperti» storici.


Professor Raeborn, il primo disco della ODJB non segna sicuramente l’anno di nascita del jazz. Quale anno sceglierebbe lei per definirne l’inizio?
Questa è una delle domande più grosse che ricorre nell’ambito degli studi sul jazz. Difficile, anche perché è difficile definire cosa sia il jazz. Prendiamo ad esempio il caso interessante di Buddy Bolden, trombettista storico di New Orleans. Si dice all’inizio del 900 suonasse già una musica che poteva essere definita così. La data del disco è una convenzione comoda che ha peraltro permesso ai musicisti che l’hanno inciso di affermare che l’avevano inventato, cosa che non era vera. Ad esempio il banjoista e chitarrista Cyril Saint Cyr, che era attivo in quegli anni, dice che Bolden non era nemmeno necessariamente il più bravo in quel contesto. C’erano altre band molto migliori di quella di Bolden, che si era ritirato nel 1906. E d’altro canto non si tratta di parlare di singole band ma piuttosto di un movimento che si era generato. 

Ma quali sono gli elementi che definiscono una performance di jazz? 
Potremmo indicare: l’uso del blues; l’improvvisazione collettiva; un certo tipo di strumentazione e di arrangiamento in cui gli strumenti parlano tra loro e interagiscono collettivamente. Poi persino la presenza di una batteria: la tecnologia necessaria alla costruzione di un simile strumento è importantissima, perché il jazz originariamente è una musica da ballo. Va notato che i bianchi non chiamavamo quella musica jazz: la chiamavano ragtime, la chiamavano gutbucket music, hot music. C’erano molti termini per descriverla a New Orleans nel 1917. «Jazz» è un nome che circolava nell’ambiente e si registra per la prima volta nel nome di una band attorno al 1910: e prima della Original Dixieland Band anche i gruppi neri e creoli che suonavano musica di New Orleans e arrivavano a Chicago facevano quel tipo di musica. 

Si ritiene oggi che i primi arrangiamenti suonati da quei gruppi fossero largamente improvvisati. È vero?
Tutti gli arrangiamenti erano improvvisati e si definivano «head arrangements» ciò che significa che invece di essere composti istantaneamente, contenevano elementi preordinati nel corso di prove, imparati a memoria. Poi nella performance c’era la libertà di intervenire per modificarli, inserendo nuove idee, cose che i musicisti facevano tra l’altro anche negli studi di registrazione. 

Poi arrivò Jelly Roll Morton e disse: «Io sono l’inventore del jazz». Come poteva?
Poté farlo perché la sua composizione Jelly Roll Blues, un brano che è simile al jazz, è forse la prima pubblicazione a stampa di questa musica. L’ha pubblicata a Chicago, ma non è riuscito a trarne molto profitto: infatti è dovuto andare via da lì e ha scelto di spostarsi a Los Angeles, nel 1917. Penso cercasse di evitare la competizione e avesse scelto un posto meno battuto, dove poteva avere in qualche modo il monopolio del jazz. In quel periodo a New Orleans, da dove lui veniva, c’era musica di diversi tipi: classica e operistica, poi la musica che veniva dai Caraibi; c’erano le marching band nelle strade. In ogni caso l’affermazione di Jelly Roll, il suo pretendere d’essere l’inventore del jazz è importante. Ma in realtà è questo immergersi della musica di New Orleans nelle molteplici voci vive in quella città, questa ispirazione alle molte fonti musicali, che crea il jazz. Non può essere una cosa dovuta a una persona sola. Se prendi una canzone e la suoni da solo è una cosa, ma se la adatti per una formazione, fosse anche la forma minima di un trio, e ci aggiungi l’improvvisazione collettiva, ecco che quella canzone diventa un’altra cosa. 

Al di là di tutto, comunque, i dischi sono documenti che permettono una valutazione più concreta della storia del jazz. 
È vero: ma come sostengono molti studiosi, un disco è un oggetto congelato nel tempo, mentre il vero artefatto jazzistico vivente, quello che andrebbe valutato, è la performance dal vivo. Il disco, spesso è incompleto. Certo, se non avessimo i dischi a cui fare riferimento saremmo davvero in difficoltà, perché anche i frammenti più piccoli e persino imperfetti ci permettono di seguire cambiamenti ed evoluzioni. Ci permettono di riconoscere le voci dei singoli musicisti e di vedere come sono evoluti nel tempo: Louis Armstrong del 1923 è diverso dall’Armstrong del 1928. Solo 5 anni dopo, ha completamente modificato il suo stile strumentale. 

Nel corso degli anni il jazz si è trasformato da genere popolare a genere molto più intellettualizzato, concettuale. Come è successo secondo lei? 
È la «forma concerto» ad aver cambiato molte cose. Una volta il jazz era musica da ballo ma per ballare ci vuole lo spazio. Se lei frequenta oggi la Preservation Hall di New Orleans, dove si preserva lo stile tradizionale, nota che è piccola e non ci si può ballare. Quindi si sta seduti e si ascolta. Più in generale i padroni dei locali preferiscono riempirli di pubblico, ed è più facile quando la gente sta ferma. Bisogna dire comunque che a New Orleans ballano in tutte le condizioni, anche per strada. Ai funerali, alle sfilate, alle parate e processioni.
I ragazzi seguono le bande, le circondano e ballano. Alan Lomax, il grande etnomusicologo americano, aveva confrontato le second line con certe processioni rituali che si tengono in Africa. Le due tradizioni sono molto legate. Per la gente di New Orleans il jazz è ancora una musica da ballo, ma per i turisti, la dimensione preferita è ancora il concerto. Molti intellettuali hanno iniziato a credere che l’ascolto da seduti sia più rispettoso della musica. Per gli abitanti di New Orleans, invece, qualsiasi luogo, le vie, il portico che dà sulla strada, la piazza, sono luoghi appropriati per l’ascolto del jazz.