I modi in cui la narrativa si avvicina al fenomeno musicale sono sostanzialmente due. Il primo è quello per cui chi scrive lo fa da una posizione già prossima a questioni di musica e quindi spesso (anziché di un «normale» romanziere) si tratta piuttosto di un musicofilo, che attraverso il genere narrativo vuole riportare – in una forma meno specialistica ed erudita, auspicabilmente meno noiosa – determinati contenuti tanto cari al connaisseur. Con risultati a volte discreti, ma quasi sempre lontani dai minimi requisiti di tecnica e poetica necessari per ambire alla qualifica e agli esiti di uno scrittore tout court.
Il secondo prototipo del romanziere musicale è invece il non-specialista appassionato – lo si potrebbe anche definire scrittore melomane – che nella scelta di situazioni o ambientazioni musicali ricerca il generico fascino delle sensazioni attorno alla musica: stereotipi dal retrogusto romantico-ottocentesco, che anzi appaiono ancor più edulcorati rispetto agli originali, depauperati di ogni verità umana e idealizzati fino a un appiccicaticcio inverosimile. Se poi si aggiunge che ogni tentativo di avvicinare parametri tecnici porta quasi sempre a un aperto affronto verso il lettore-conoscitore, il risultato complessivo è forse ancora più desolante che non quello della prima tipologia.
Non esistono perciò vie di mezzo? Non è quindi possibile mettere la musica in un romanzo, senza sembrare naïf sprovveduti o criptici nerd?
L’eterna speranza di una risposta affermativa a questi interrogativi ci è stata recentemente regalata – e che regalo! – dal romanzo L’orizzonte della scomparsa di Giuliana Altamura, pubblicato da Marsilio. Autentica epifania di un «racconto umano con musica».
Il soggetto è costituito dall’incrocio più virtuale che reale – ma è ormai chiaro a tutti come nel contemporaneo la virtualità sia altrettanto solida che la realtà – dell’esistenza di due giovani: Lana e Christian. La prima è una disincantata figura che da un supermercato della provincia americana si trova proiettata sulla ribalta di un seguitissimo reality show televisivo, il secondo un affermato talento del pianoforte classico che divide la propria esistenza tra prestigiose masterclass o concorsi internazionali e la presenza – costante, totalizzante – sul web dei social network e delle chat anonime.
Svelato il soggetto nulla è però ancora detto del modo con cui esso venga reso, e di come la musica riesca a trovarvi un suo posto organico. Il contesto è dunque quello della grande interpretazione classico-pianistica, un universo che inevitabilmente rimanderebbe agli stereotipi citati sopra, a immagini di geni sbadati e disadatti, con giacche di velluto a toppe e lunghe sciarpe colorate. E invece no, perché Christian è un autentico ragazzo del nuovo millennio, e nel nuovo millennio si muove con assoluta plausibilità. Perché il nodo più profondo non è tanto tecnico e poetico – come si fa a metter la musica in un romanzo? – ma antropologico e culturale: è possibile vivere oggi nell’esclusivo contatto con opere ed estetiche create quando ci si muoveva ancora a dorso d’asino?
E il miracolo operato dall’autrice è proprio quello di restituirci un’esistenza in cui lo sfiancante lavoro su Bach, Chopin o Rachmaninov – con tutti i tic e le contraddizioni proprie del mondo classico-accademico – non sia solo una cartolina dal passato ma una verità da un presente di carne e sentimenti. Elemento centrale e centrato in una storia che, fortunatamente, parla d’altro.
Ma come c’è riuscita? La risposta ce la dà probabilmente la stessa biografia di Giuliana Altamura, che prima ancora di affermarsi come scrittrice – e venir riconosciuta all’esordio con il Premio Rapallo nel 2014 – è stata violinista, e in prima persona ha quindi esperito l’ineffabile concretezza di una vita in musica.