La scena è quasi interamente vuota. Lungo la parete di fondo sono disposte quattro seggioline su cui siedono tre donne che sferruzzano e un ragazzo col capo rasato, magro e seminudo, che muove avanti e indietro il busto, in accordo col fitto ticchettio dei ferri da calza. A un certo punto le donne interrompono il lavoro, si alzano e si dirigono con passo deciso verso il proscenio, dove si allineano parallelamente al pubblico. Questo modo di attraversare la scena e posizionarsi di fronte agli spettatori (uno stilema la cui «primavoltità» – neologismo di Bobi Bazlen – risale allo stupendo Kontakthof di Pina Bausch) è diventato nell’arco di un quarantennio uno stereotipo coreografico. Emma Dante lo ha usato in varie occasioni, sicché – vedendolo riproposto all’inizio di Misericordia – viene spontaneo chiedersi: «ancora?!» È una domanda-esclamazione che il nuovo spettacolo dell’artista siciliana (coprodotto dal Piccolo Teatro di Milano, dalla Compagnia Sud Costa Occidentale e dal Teatro Biondo di Palermo) susciterà probabilmente più di una volta in quanti conoscono il suo teatro.
Anna, Nuzza, Bettina: questi i nomi delle tre donne, che campano vendendo di giorno i loro lavori a maglia e di notte i loro corpi. Nell’allineamento iniziale all’altezza del proscenio, le tre magliaie-prostitute discorrono animatamente (con parole e gesti in parte comicamente stilizzati) di un panino col prosciutto che è sparito dal frigorifero, e mostrando alcune fotografie illustrano al ragazzo, che ha nome Arturo, e il cui solo indumento è un pannolone, (ma il vero destinatario del racconto è il pubblico), il dramma che ha fatto di lui uno «scimunito», nato prematuramente da una donna (Lucia la zoppa) vittima di un marito violento (un falegname soprannominato Geppetto), che durante la gravidanza l’ha brutalmente presa a pugni sul ventre. Mosse a pietà, Anna, Nuzza e Bettina hanno accolto in casa loro il bambino, orfano di madre, e lo hanno allevato come un figlio.
Eccoci dunque, di nuovo, tra figure appartenenti a quel mondo socialmente marginale, regionale e dialettale (Nuzza e Bettina parlano in siciliano stretto, Anna in pugliese, Arturo non parla) che la regista-drammaturga Emma Dante predilige, e dal quale non sa e non vuole staccarsi (quando l’ha fatto, con La scimia, spettacolo di ambientazione piccolo-borghese tratto da Le due zittelle di Tommaso Landolfi, il risultato è stato deludente). Nell’intervista pubblicata sul programma di sala, Emma Dante parla di «una storia dotata di una precisa struttura, di una trama, di relazioni tra i personaggi, [di] un impianto drammaturgico compiuto». A me sembra che la trama di Misericordia sia pressoché nulla: non c’è azione narrativa, non c’è concatenazione di avvenimenti (mi riesce difficile, ad esempio, considerare un «avvenimento» l’atto di svuotare un sacco di plastica contenente una quantità giocattoli che si sparpagliano sulla scena e vengono rimessi nel sacco con un’operazione a otto mani tirata per le lunghe).
Verso la fine dello spettacolo (che dura un’ora), le tre donne vestono Arturo con dei pantaloncini neri e una camiciola bianca (assimilandolo a un ligneo Pinocchio che è diventato un bambino grazie alle loro cure materne) e dopo averlo munito di una valigetta in cui hanno riposto pochi oggetti e 300 euro, lo inducono con parole affettuose ad avviarsi fiduciosamente (mentre in strada passa e suona la banda che da sempre eccita e incanta il ragazzino) verso quella che sarà la sua nuova abitazione: un imprecisato istituto dove avrà una cameretta tutta per sé. «È un finale aperto alla speranza» dice Emma Dante. Le tre donne «si augurano che Arturo possa avere una sorte diversa dalla loro». A me sembra un finale vagamente fiabesco di scarsa plausibilità.
Quanto ai «personaggi», si sa che quello di Emma Dante non è un teatro di scavo psicologico ma di espressività corporale: un teatro in cui la fisicità conta più delle parole, e la scrittura scenica più di quella drammaturgica. I personaggi della Dante sono anzitutto dei corpi posseduti, direbbe Pasolini, da «una disperata vitalità», che a tratti può diventare gioiosa, giocosa, dionisiaca. Anna, Nuzza e Bettina (Leonarda Saffi, Manuela Lo Sicco, Italia Carroccio) sono di una fisicità prorompente, sia quando parlano sia quando danzano al ritmo di una musica popolare trascinante (la musica e la danza hanno grande rilievo in Misericordia), ma come «personaggi» sono poco articolate, «piatte» (flat, per dirla con E.M. Forster), e spesso richiamano altre figure femminili del teatro di Emma Dante. Complessivamente, insomma, sanno di ripetitivo, di déjà vu.
La figura più riuscita di Misericordia è Arturo: lo «scimunito» mirabilmente incarnato dal ventiseienne danzatore-coreografo Simone Zambelli, che ne ha fatto un giovinetto dai movimenti rigidi, goffi o scomposti, improvvisamente capace di attingere la leggerezza, l’agilità, la grazia di un bambino festoso, di un folletto, di una creatura innocente.