Un male poco convincente

Il genere horror sta godendo di un vero e proprio revival anche a livello di critica, ma non sempre i risultati sono all’altezza delle aspettative, come dimostra l’opera prima di Ari Asper
/ 03.09.2018
di Nicola Mazzi

Prima di parlare del film partiamo da tre annotazioni. L’ottima interpretazione di Toni Collette potrebbe aprirle le porte dell’Academy e portarle in dote, se non la statuetta almeno una nomination all’Oscar. Ma questa è storia dei prossimi mesi. A livello economico l’incasso registrato al botteghino è soddisfacente. Infatti a fronte di un investimento di 10 milioni il film ha guadagnato, finora nel mondo, 80 milioni di dollari. In terzo luogo l’aggregatore di giudizi della critica e del pubblico Rotten Tomatoes indica l’89% di pareri positivi dalla stampa specializzata e il 60% dal pubblico: un buon livello.

Hereditary-Le radici del male è tutto questo, ma anche molto altro. A iniziare dalla trama che ha diversi rimandi ad altre opere classiche e al genere al quale si rifà. Il film inizia con un funerale; è appena morta Ellen Graham, la madre della protagonista (Annie), una figura che nel corso della visione si svela diventando sempre più inquietante. Una messa a fuoco di un personaggio che nel meccanismo narrativo ricorda da vicino opere celebri come Quarto Potere di Orson Welles ma, soprattutto, La Contessa scalza di Joseph Mankiewicz. Anche in questa seconda pellicola siamo subito catapultati in un funerale di una figura che conosceremo grazie ai ricordi di amici e parenti.

La scomparsa della matriarca lascia un vuoto. Per colmarlo Annie si rifugia in un gruppo di auto-aiuto dove rivela la presenza nella famiglia di malattie mentali ereditarie che hanno portato diversi membri della stessa alla morte. Alcuni segnali di queste patologie le osserviamo nei figli di Annie; sin dai loro tratti psicologici e somatici. Se la ragazzina, Charlie, ha un viso leggermente deforme e un tic nervoso da brividi (uno schiocco con la lingua che ti entra nel cervello e non ti abbandona per tutta la visione), il fratello Peter – all’apparenza il classico teenager americano – ha uno sguardo fisso che mette paura. Il quadro è completato dal padre, Steve, il quale invece, incarna la ragione e la ponderatezza. È l’unico che tenta di dare una logica, una ragione, all’irrazionalità in cui è immersa la famiglia.

Detto dei rimandi ai classici è indubbio che il riferimento più evidente è a Rosemary’s Baby. L’esordiente regista Ari Aster usa l’horror psicologico come fece in quella pellicola Roman Polanski. Sin dall’inizio. Se infatti Polanski comincia con un piano-sequenza nel quale inquadra Manhattan per poi focalizzarsi sul Dakota Building (luogo in cui si svolge tutto il film), Aster ci mostra un modellino della casa dei Graham. Due abitazioni che diverranno il luogo in cui si manifesterà il male. La somiglianza è evidente anche alla fine. Infatti le due opere terminano nello stesso modo: il trionfo dell’Anti-Cristo. E se nel 1968 la pellicola finiva con una sorta di festa satanica per celebrare un mostruoso neonato, qui vediamo una malefica comunità che si prostra davanti al nuovo sovrano dell’Inferno.

La differenza con la sconvolgente opera di Polanski è tuttavia abbastanza chiara. Se Rosemary’s Baby segue una solida linea narrativa e riesce a catturare per la sua efficace semplicità, Hereditary-Le radici del male si perde nel barocchismo. Nel voler aggiungere troppi elementi (sonnambulismo, esoterismo, sedute spiritiche, magia, satanismo, per non citarne che alcuni) che riempiono lo spettatore fino a farlo scoppiare. Ed è soprattutto nella seconda parte – anche a causa di alcuni effetti speciali esagerati e inverosimili – che notiamo il difetto. Non aiuta a mantenere la rotta una regia apprezzabile e rigorosa all’inizio – dove i tempi sono giusti e l’accumulo di elementi graduale – ma sgangherata alla fine. Probabilmente anche il regista è stato intrappolato nel suo stesso gioco e in un certo autocompiacimento che in sala ha provocato anche diverse risate ironiche. Ari Asper ha giocato troppo con il fuoco degli inferi e si è bruciato, vittima di uno dei sette vizi capitali: la superbia.