Per la nona volta dalla sua nascita nel 1876 il Festival di Bayreuth allestisce una produzione di Tannhäuser, opera dell’ancor giovane Wagner, andata in scena a Dresda nel 1845. Gli anni di Dresda, gli anni del sogno rivoluzionario, della frequentazione con Bakunin meravigliosamente ritratto nell’Autobiografia del compositore, gli anni che culminarono nella sommossa e nella fuga, nella scelta obbligata del lungo esilio in Svizzera, sono anni che ribollono nel Tannhäuser di Tobias Kratzer, regista tedesco non ancora quarantenne, già premiato per produzioni precedenti, esponente della nuova generazione del «regie-theater» tanto osteggiato nell’Europa mediterranea, eppure necessario al teatro d’opera come l’ossigeno per respirare.
Che fa Tobias Kratzer con Tannhäuser, che peraltro ben conosce, avendolo già allestito al Teatro di Brema? Prende questa vicenda medievale che ha al centro il contrasto tra amore carnale e amore spirituale, fulcro della disfida tra poeti cantori e fulcro dell’esistenza del protagonista incapace di decidersi fra le due donne che questi due tipi diversi d’amore incarnano, Venere ed Elisabeth, e cerca una chiave per trasferirla nella contemporaneità. Mette in secondo piano il contrasto fra sesso e spiritualità e si concentra sugli stili di vita incarnati dalle due donne.
Il suo Tannhäuser è un uomo che ha lasciato la società borghese (impersonata da Elisabeth) per scegliere di vivere una vita alternativa con Venere e il suo minicirco ambulante, composto di un nano col tamburo di latta (quello di Günter Grass, appunto) e di un transgender nero in paillettes, che risponde al nome di Gateau Chocolat. Eccoli in viaggio su un furgoncino per le strade del mondo, vivono di espedienti, rubacchiando e sniffando coca, ma quando Venere a un distributore di benzina uccide un poliziotto, Tannhäuser ci ripensa e decide di tornare al suo vecchio mondo. Si risveglia davanti al Festspielhaus di Bayreuth dove incontra gli amici di un tempo, Wolfram, Walter, Biterolf e il langravio zio di Elisabeth, che lo invitano alla gara poetica, rivelandogli che Elisabeth non lo ha mai dimenticato. Così il cantore pentito partecipa alla gara inscenata con tutti i crismi della tradizione sul palcoscenico del Festspielhaus, e succede quel che deve succedere: Wolfram canta l’amore puro, lui quello carnale. Nel frattempo Venere e il suo minicirco riescono a entrare in teatro, lei ad intrufolarsi tra le fanciulle del coro. Katharina Wagner (sì proprio lei, ma in video) accortasi della presenza degli intrusi, chiama la polizia che fa irruzione nel teatro e arresta il poeta cantore.
A tutto questo assistiamo stupiti e divertiti grazie anche al notevole uso dei video di Manuel Braun, nel solco indicato dal magistero di Frank Castorf, regista del più recente Ring. Nel terzo atto siamo in una discarica, il furgoncino è mezzo sfasciato, il transgender nero ha fatto fortuna nel mondo della pubblicità, Venere non si sa dove sia, il nano è rimasto a guardia del furgoncino e delle gioie di un tempo, Elisabeth cerca il suo Tannhäuser tra i pellegrini di ritorno da Roma, Wolfram la segue fedelissimo e, indossati i panni del Tannhäuser circense, si prende quella verginità che lei ha inutilmente conservato per l’amato, ma i due non sanno trovare un modo per relazionarsi davvero e la stella della sera brilla malinconica per Wolfram, mentre Elisabeth, che già in passato aveva tentato il suicidio, si taglia le vene e questa volta per davvero. Tannhäuser torna giusto in tempo per abbracciarla e morire. Finale nell’aldilà: alla guida del furgoncino liberi e felici ci sono Elisabeth e Tannhäuser «on the road» sulle vie dell’eternità.
Un allestimento, quello di Tobias Kratzer, che si avvale delle scene e costumi di Rainer Sellmaier e che, riallacciandosi alle produzioni precedenti, vuole proporre una vicenda credibile per noi gente del XXI secolo, una vicenda che nasce commedia – con momenti di genuino divertimento – e culmina in tragedia, laddove la morte spazza via ogni riflessione sul senso dell’arte. E come non pensare, vedendo quel furgoncino a spasso per il mondo, alla vicenda di Marina Abramovic con Ulay negli anni Sessanta, alla ricerca di un nuovo modo di fare arte? Wagner stesso non stava forse cercando il suo personale modo di fare arte nei tumultuosi anni Quaranta del XIX secolo?
Tobias Kratzer ci restituisce un Tannhäuser contemporaneo, in grado di divertire e commuovere al tempo stesso. E il pubblico glielo riconosce con applausi prolungati e scroscianti. La direzione musicale di Valery Gergiev, dopo una «prima» contrastata, ha convinto interamente, grazie anche alla sempre rinnovata magia dell’Orchestra e del magnifico Coro di Bayreuth. Applausi per gli interpreti, Lise Davidsen e Stephen Gould, già in coppia all’Opernhaus di Zurigo nei ruoli di Elisabeth e Tannhäuser, per la simpatica Venere di Elena Zhidkova e per lo squisito Wolfram di Markus Eiche. Una produzione da non perdere.