Qualche sassolino da togliersi dalle scarpe Cannes deve averlo. L’edizione 2017 del maggiore fra gli incontri cinematografici al mondo se l’era cavata con una ottima Palma d’Oro (lo svedese The Square) e qualche limpida conferma (il russo Loveless). Faticando però sempre più a nascondere un’evidenza: anche i più celebrati tra i cineasti presenti andavano presentando opere più o meno involute. Mentre la formula storica con la presenza di tanti maestri affermati, abbinata all’ironia dilagante sugli abbonati inamovibili, non rappresentava più la panacea ad ogni male.
Punta dell’iceberg dell’immagine in movimento, ma specchio inevitabile delle incertezze del nostro momento, il Festival di Cannes non può esimersi dall’esprimerle. Affrontare di conseguenza l’esigenza di certe parità fra le iscrizioni femminili, così come il perdurare degli irrisolti strascichi morali dell’affare Weinstein. Ancora, l’avvento inarrestabile di Netflix: che, rifiutando le lungaggini sempre più inaccettabili dello sfruttamento dei film nelle sale, arrischia ormai di rendere impossibile la convivenza con le regole dei festival. Come se non bastasse, ecco il divieto di scattare «selfies» sul mitico tappeto rosso; o la privazione alla stampa delle proiezioni professionali che precedevano quelle ufficiali.
A prima vista, insomma, il programma dell’invidiato gigante mediatico, commerciale e artistico che s’inaugura domani (71esima edizione, 8-19 maggio 2018) sembra riflettere la volontà di rimediare. Ecco allora la sorprendente presenza in Concorso di ben otto cineasti (su un totale di ventuno) che affrontano per la prima volta questa prova; per ogni cineasta del mondo si tratta della più ambita e al contempo più temuta. E ciò sebbene l’afflusso di questi esordienti indichi una sorta di accomodamento interno, provenendo infatti tutti dalle sezioni parallele. Così l’americano David Robert Mitchell, nel 2014 alla Semaine con l’ottimo It Follows¸ che accede con un noir dalle connotazioni fantastiche, Under the Silver Lake. Oppure il russo Kirill Serebrennikov, che dal 2016 dell’incalzante Disciple al Certain Regard giunge ora in lizza per la Palma con L’estate; chissà se sarà presente di persona, essendo attualmente confinato a domicilio in patria. Destino non molto dissimile per l’iraniano Jafar Panahi, autore nel 2014 dello splendido Taxi Teheran: raggiunge finalmente il Concorso con 3 visages, ma gira da anni in clandestinità, per un divieto assoluto che giunge dall’alto.
Sorprende la quasi assenza del cinema americano, sempre monopolizzatore il resto dell’anno nelle sale; appare dunque sempre più ovvia la preferenza di Hollywood per riunioni autunnali come la Mostra di Venezia o Toronto, complici le date, strategicamente assai più ravvicinate agli Oscar. Scomparso il film preannunciato del genietto canadese Xavier Dolan, non rimane allora che il redivivo Spike Lee, dopo anni di assenza dai vertici cinematografici più significativi: il suo BlacKkKlansam, squarcio sull’estrema destra nell’America degli anni Settanta, è tutto da scoprire.
Dopo la serata inaugurale (Todos lo saben spagnoleggia per la presenza tutta almodovariana di Penelope Cruz e Javier Bardem, ma è condotta dal genio dell’iraniano Farhadi) la qualità sembra emergere progressivamente. Sontuosa, infatti, la selezione orientale: il coreano Lee Chang-dong (Burning) è rimasto nelle memorie dal 2010 di Poetry, pluripremiato proprio a Cannes; mentre il cinese Jia Zhangke (Les éternels) filmava con il meraviglioso A Touch Of Skin del 2013 un capolavoro di romanzata lucidità sul proprio Paese. Perfetta, infine, l’accoppiata Hirokazu Kore’eda (Une affaire de famille) e Ryusuke Hamaguchi, che assicura egualmente al Giappone un ruolo di primo piano. Dopo l’assenza del 2017 l’Italia ritorna giustamente baldanzosa con Dogman di Matteo Garrone e Lazzaro Felice di Alice Rohrwacher (senza dimenticare Valeria Golino regista con Euforia al Certain Regard). La Francia ripropone in En guerre la formidabile accoppiata Stéphane Brizé e Vincent Lindon di La legge del mercato. Ma non è tutto. Il film che incuriosisce maggiormente chi scrive è Zimna wojna del polacco Pawel Pawlikowski, autore dell’insolito, delizioso e giustamente oscarizzato Ida. E come terminare senza citare il ritorno … in competizione e a 88 anni di un certo Jean-Luc Godard (Le livre d’image). Oppure, fuori concorso, di un danese che era stato radiato per sempre dalla Croisette per aver sostenuto che Hitler «aveva soltanto fatto alcune cose sbagliate»; comunque sia, di film banali Lars von Trier ne ha fatti, e fra questi arrischia di risultare anche questo The House That Jack Built.