È innegabile, il Festival La Bâtie (La Bâtie per gli amici) è diventato nel corso degli anni l’avvenimento immancabile per quanto riguarda le arti della scena a Ginevra, e non solo. Nata nei primi anni Settanta dalle menti iperattive di René Husser, Jary Joe, Michel Pasquier e Philippe Castello del gruppo ginevrino Eruption, La Bâtie si fa conoscere come la «Woodstock della punta del Lemano». Quattro anni dopo è Jean-François Jacquet (direttore dell’AMR) a prendere le redini della manifestazione diventata ormai indispensabile. Sovversiva, pluridisciplinare e alternativa La Bâtie s’impossessa pian piano di Ginevra, inglobando negli ultimi anni anche alcuni comuni limitrofi e la vicina Francia. La sindrome Bâtie si espande, lenta ma inesorabile, oltre le frontiere geografiche ma anche e soprattutto oltre le categorie di genere (nel senso lato del termine).
Danza, teatro, musica o performance, poco importano le etichette, quello che conta è la qualità e la forza dello spettacolo proposto. Questa tendenza alla pluridisciplinarità, intesa come spazio artistico dove sperimentare a piacimento, si è imposta con forza a partire dal 2016 quando la sua direttrice, Alya Stürenburg Rossi, decide di eliminare dalla programmazione le classiche etichette «danza», «teatro» e «musica». Una scelta vincente e sicuramente al passo con i tempi.
La manifestazione si globalizza attirando ogni anno, come una sirena calvinista dallo spirito punk, un numero sempre crescente di artisti di fama internazionale. A questo proposito basti citare quest’anno: la performance del sempre maestoso John Cale, membro seminale dei Velvet Undergrond e geniale produttore (Patti Smith e The Stooges), il concerto dei re della new wave inglese degli anni 80 Echo&The Bunnymen o ancora l’austera e vulcanica coreografa belga Anne Teresa De Keersmaeker che ha presentato, in duo con uno dei suoi protetti Salva Sanchis (ex allievo di P.A.R.T.S.), A Love Supreme, miscela esplosiva che unisce in modo inaspettato improvvisazione e rigore formale, il tutto accompagnato dalla musica di John Coltrane. Una coreografia coraggiosa e seducente che interroga il linguaggio proprio alla danza contemporanea evidenziandone le infinite potenzialità.
Per quest’ultima edizione Alya Stürenburg Rossi, che da novembre cederà il posto dopo ben dieci anni di attività a Claude Ratzé (da venticinque anni direttore dell’Associazione per la danza contemporanea ADC e agli inizi della sua carriera addetto stampa e programmatore de La Bâtie), ha scelto come filo conduttore la «trasmissione». Trasmissione di un festival che sorride all’avvenire, irriverente e ambizioso, amante delle arti della scena nella sua sublime globalità, ma che non nasconde la sua passione scottante per la danza contemporanea e la performance.
Diventata ormai una tradizione, questa 41esima edizione ha scelto di onorare due artisti invitati che diventano a loro volta i numi tutelari della manifestazione: Oscar Gòmez Mata e Mohamed El Khatib.
Il primo ha festeggiato con il sorriso (rimando forse allo smiley che troneggia sui poster del festival?), paillettes e endorfine i 20 anni della sua compagnia, l’Alakran, accompagnato da artisti e amici quali La Ribot, il musicista Andrès Garcia o ancora l’attore e regista teatrale bernese François Gremaud. Oscar Gòmez Mata, artista a tutto tondo (regista teatrale, attore, autore e scenografo) spagnolo ma ginevrino d’adozione (la compagnia Alakran nasce proprio sulle rive del Lemano), ha presentato quest’anno in anteprima a La Bâtie Le Direktør, trasposizione scenica del film di Lars Von Trier. Un lavoro incisivo e diretto, quello di Gòmez Mata, che mette in scena il dietro le quinte spesso grottesco del mondo del lavoro e le derive del capitalismo. Il secondo ospite, il regista teatrale francese Mohamed El Khatib ha presentato ben tre opere: Moi, Corinne Dadat, Finir en beauté e L’amour en Renault 12, esempi luminosi della sua sensibilità artistica che si nutre della realtà (situazioni vissute sulla sua pelle o estrapolate dalla vita di gente «comune») diventata, grazie alla scena, elemento narrativo di un’inaspettata forza estetica.
Come di consuetudine il festival ginevrino ha celebrato sul palco una nuova generazione di artisti più che promettenti. Sorprendenti, accattivanti e stuzzicanti i lavori dell’austriaca Florentina Holzinger (Apollon Musagète), che utilizza la tradizione (post barocca) per parlare di alienazione e identità, il tutto su di una scena che esclude volontariamente e sistematicamente qualsiasi figura maschile, e del belga Pieter Ampe (So you can feel) che utilizza il suo corpo come campo di battaglia sul quale sperimentare senza impedimenti e falsi pudori. Sovversiva e intensa anche la messa in scena della capoverdiana (ex allieva di P.A.R.T.S.) Marlene Monteiro Freitas (Prélude pour une purge) che utilizza la plasticità dei corpi in modo ribelle per raggiungere una libertà universale.
Nella stessa vena intransigente e feroce troviamo Marcelo Evelin che ha presentato quest’anno a La Bâtie Dança doente, coreografia ispirata dal pioniere del butô Tatsumi Hijikata, la compagnia belga Peeping Tom e il loro Moeder, coreografia iperrealista e misteriosa che ricorda le atmostefere di Twin Peaks e la sud africana Dada Masilio che reinventa in modo decisamente originale i balletti classici (quest’anno Giselle) rimettendo i personaggi femminili al posto che gli spetta di diritto: al centro dello scontro. Impossibile non citare anche la potente performance di Eisa Jacson Your Highness che denuncia la mercificazione dei corpi nel suo paese natale, le Filippine (ma il discorso è ovviamente universale). La seducente e ipnotica prestazione dell’incredibilmente promettente François Chaignaud e Nino Laisné (Romances Incertos: un autre Orlando), senza dimenticare la sempre maestosa Mathilde Monnier che ha presentato quest’anno a La Bâtie El baile, in coppia con Alan Pauls.
Un’edizione incisiva dove la nuova generazione si nutre della forza del passato aprendosi allo stesso tempo con coraggio e sfacciataggine al futuro. L’arte intesa come trasformazione e catarsi.