Un dialogo poetico sul palcoscenico

Brodsky/Baryshnikov mette in scena l’amicizia tra uno dei maggiori ballerini e uno dei più grandi scrittori russi
/ 02.07.2018
di Matteo Campagnoli

Il diminutivo di Mikhail, Misha, in russo suona quasi come mysh, «topolino», ed è così che Brodskij chiamava affettuosamente Baryshnikov. Come molti ballerini classici, anche lui è piuttosto minuto, ma a settant’anni il suo fisico è ancora prodigioso e anche solo quando cammina sul palco si capisce che è stato uno dei più grandi danzatori di sempre.

Come dichiara il titolo, Brodsky/Baryshnikov è uno spettacolo personale, intimo, la ramificazione estrema di un dialogo fra due amici che va avanti da più di mezzo secolo, benché da tempo a parlare per Brodskij, prematuramente scomparso nel 1996, siano solo le sue poesie. E a queste Baryshnikov dà voce, corpo e anima in una performance che è insieme teatro e vita: il suo legame con i versi del poeta russo è profondo e risale a quando, giovane astro nascente al teatro di Riga, li leggeva e li imparava a memoria sfidando la censura sovietica che li aveva proibiti.

Era stato poi il violoncellista Mstislav Rostropovič a farli incontrare, a New York nel 1974. Brodskij aveva alle spalle due anni di esilio preceduti da diversi arresti e da una condanna al confino per «parassitismo sociale» che, grazie a una trascrizione clandestina del processo circolata in Occidente, invece di zittirlo lo aveva reso famoso. L’Unione Sovietica Baryshnikov l’aveva invece lasciata volontariamente qualche mese prima, benché in patria fosse idolatrato: durante una tournée canadese del balletto Mariinskij, era uscito dal retro del teatro in cui si era appena esibito e aveva corso per due isolati fino all’auto che lo avrebbe portato al sicuro, ma anche verso l’incertezza di una nuova vita. Quella sera a casa di Rostropovič, Brodskij lo aveva visto entrare e come se si conoscessero da sempre gli aveva detto: «Siediti qui, abbiamo delle cose da dirci». Da allora non avevano più smesso di parlarsi.

A legarli per più di vent’anni è stata un’affinità elettiva ma anche un talento smisurato e una dedizione alla propria arte che avrebbero portato Brodskij a vincere il Nobel per la letteratura a soli quarantasette anni e Baryshnikov a imporsi sui più importanti palcoscenici del mondo. Ma le carriere nella danza classica, diversamente da quelle letterarie, finiscono presto. Dopo quattro anni con l’American Ballet Theatre e due con il New York City Ballet di Balanchine, per l’erede di Nijinskij e Nureyev erano arrivati i primi veri problemi: una grave tendinite, l’età. Baryshnikov è stato però capace di far defluire la sua vena artistica nelle più disparate direzioni, dalla danza moderna a Hollywood, da Sex and the City al teatro concettuale di Bob Wilson. Ora, fantasma e alter ego del suo amico, non danza ma interpreta, incarna, si lascia plasmare dalla prosodia russa, duetta con la voce di Brodskij che, registrata, ci sorprende come dall’aldilà.

Sorretta dalla raffinata scenografia di Kristīne Jurjāne, la messa in scena del regista Alvis Hermanis coniuga essenzialità e decadenza in un’atmosfera retrò: un gazebo, una sedia, alcuni oggetti del passato. La scelta dei testi è tutta volta a sottolineare il distacco, la transitorietà, le sottrazioni del tempo, alle quali però si contrappone in modo struggente la poesia, che della memoria è la forma più duratura anche quando canta la perdita. Baryshnikov perlopiù ricuce frammenti ma alcune composizioni vengono recitate per intero, o quasi, come «1972», ampia e splendida poesia sulla vecchiaia scritta a soli trentadue anni, e la mozartiana «Farfalla».

Dopo il debutto napoletano di fine giugno, ai primi di luglio Baryshnikov sarà a Firenze e poi a Venezia, città amata da Brodskij che le ha dedicato alcune poesie indimenticabili e un meraviglioso libretto di prose, Fondamenta degli Incurabili, e nella quale è ora sepolto sull’isola di San Michele, là dove a danzare, indifferenti ai regimi e al tempo, sono i riverberi del sole sulle onde.