C’è chi affianca il suo nome a quello di Martin Scorsese, soprattutto per gli insiti piani sequenza (ottenuti anche grazie al sapiente lavoro di Robert Elswit, che l’ha seguito su tutti i set, fatta eccezione per The Master) e l’azzeccato inserimento della musica nella colonna sonora. Altri lo hanno eletto quale miglior erede di Robert Altman, stavolta per l’interesse al racconto corale dove una selva di personaggi si danno il cambio nello sviluppo drammaturgico della storia narrata. Confronti certo lusinghieri, che fanno di Paul Thomas Anderson (PTA) uno di quei registi capitati per caso a Hollywood, aggiungiamoci anche Woody Allen e i fratelli Cohen, ma che guardano al cinema europeo d’antan e ai soliti Grandi Maestri del Vecchio Continente.
È certo che PTA non abbia dovuto sciropparsi la consueta gavetta fatta di mille disparati mestieri prima di vedersi aprire le porte degli Studios, che curiosamente riecheggiano nel nome della sua cittadina natale, Studio City (CA), dov’è nato nel giugno 1970. Discendente da un’agiata stirpe è anche in qualche modo figlio d’arte: suo padre ha lavorato quale attore soprattutto nei serial televisivi. Ma il genitore è stato importante per il futuro regista anche perché fu uno dei primi appassionati di videoregistrazione. Sin da piccino PTA ha così avuto a disposizione un numero quasi infinito di film, e grazie ai tasti «rewind» e «forward» è assai probabile che abbia preso gusto a studiare scene, inquadrature e sequenze, cercando una mirabile sintesi tra i diversi stilemi dei suoi cineasti preferiti.
Un altro colpo di fortuna PTA l’ha avuto quando il Sundance Festival di Robert Redford gli ha assegnato una borsa di studio, indispensabile per garantirgli l’esordio con Hard Eight (conosciuto anche col titolo di Sidney), nel 1996. Digerite le critiche mosse alla sua opera prima (superficiale nella sceneggiatura, qualche trovata un po’ troppo campata in aria…), PTA si butta nell’universo dell’industria pornografica statunitense degli Anni 70 del secolo scorso con Boogie Nights (L’altra Hollywood), dove dirige due mostri sacri come Julianne Moore e Burt Reynolds, ottenendo risultati migliori rispetto al Milos Forman di Oltre lo scandalo e ricordandoci invece l’acume che pervadeva Il pornografo, firmato nel ’75 da John Byrum.
Sin dai primi titoli, si evidenziano altresì quei temi che diverranno imprescindibili per PTA. L’interesse per i personaggi presi dalla strada, spesso emarginati, looser e borderline, figli senza padri, figure messe a dura prova dal destino o sconfitte dai sempiterni mali (leggi: ingiustizie) che affliggono la società contemporanea; famiglie che devono confrontarsi con un passato talvolta imbarazzante e legami di sangue ai quali si vorrebbe sfuggire; il cinismo del Caso e realtà quotidiane quasi disintegrate messe a confronto con gli universi paralleli della TV o della droga.
Spunti che ritroviamo nel lavoro che permise a PTA di farsi notare nel 2000 a livello internazionale, Magnolia, petali separati, ma imprescindibili e uniti alla base, di quel meraviglioso fiore cinematografico che in realtà deve il suo titolo a un omonimo viale della San Ferdinando Valley. Un vasto affresco che deve molto al già citato Altman (America oggi) e che torna a denunciare – quattro decenni dopo la «Nuova Hollywood» – il diffuso malessere della società statunitense, dove rimane poco spazio per il mito dell’american dream.