La mostra inaugurata il 12 ottobre scorso al Teatro dell’Architettura di Mendrisio non è interessante soltanto per gli specialisti e gli appassionati di architettura, come spesso avviene per le mostre sul lavoro degli architetti. È interessante anche per il grande pubblico, perché il fondale della messa in scena espositiva è Venezia e lo straordinario paesaggio della città lagunare. L’oggetto della mostra è il progetto di due edifici – il Palazzo dei Congressi e il Padiglione della Biennale, siti entrambi ai Giardini – che accompagna il visitatore a scoprire l’architettura di Louis Kahn attraverso la conoscenza della genesi e delle ragioni di un progetto importante di trasformazione della città. Una mostra, quindi, che introduce all’architettura con efficace realismo didattico.
«Io sono un costruttore, non mi piace chiamare edifici quelli che faccio. Preferisco chiamarli luoghi…». L’affermazione di Kahn sintetizza in modo eloquente l’atteggiamento progettuale dell’architetto americano, le cui opere principali, costruite tra gli anni 50 e la fine degli anni 70 negli USA, in India e nel Pakistan hanno segnato un passaggio importante del pensiero moderno, un passaggio da diversi anni rimosso dalla cultura contemporanea più diffusa. Nato in Estonia e trasferito in tenera età a Filadelfia, ha più volte viaggiato in Europa, in particolare in Italia, dove ha completato la sua formazione. Kahn considerava suoi maestri Brunelleschi, Bramante, Michelangelo e Palladio. L’architettura di Roma e di Venezia («la più costruita delle città») hanno influenzato in modo decisivo la sua opera, capace di stabilire una relazione feconda con il passato e necessaria ad una evoluzione originale della modernità, che sfugge alle facili classificazioni manualistiche di architettura razionalista o organica. Opere come l’Art Gallery dell’Università di Yale, il Salk Institute di La Jolla, i grandi edifici pubblici di Dacca e di Ahmedabad, la biblioteca di Exeter e il museo Kimbell di Fort Worth hanno conferito all’architettura del dopoguerra la potenza costruttiva ed espressiva che il cosiddetto «stile internazionale» stava impoverendo.
È stato Giuseppe Mazzariol, l’intellettuale e politico veneziano che aveva già promosso la chiamata di Le Corbusier per il progetto dell’ospedale e di Wright per il Masieri Memorial, a volerlo a Venezia nel 1968 per progettare il palazzo dei Congressi e il Padiglione della Biennale. Mazzariol era consapevole della fragilità sociale, oltre che fisica, della città e sosteneva la necessità della sua rigenerazione culturale e produttiva, per sottrarla al destino di svuotamento dei residenti e museificazione cui oggi sembra irrimediabilmente condannata. A fronte dei grandi progetti di rinnovamento urbano allora concepiti, le misure dirette a contenere il numero dei turisti – come quella recente dei tornelli collocati all’ingresso della città – appaiono in tutta la loro miseria intellettuale.
Il grande edificio del Palazzo dei Congressi era concepito come un anfiteatro a scena centrale, sollevato dal suolo in modo da formare una piazza coperta e appoggiato a terra ai due estremi. Il sito era il viale alberato parallelo alla riva dei Giardini, dove da qualche anno hanno posizionato le biglietterie della Biennale. Perpendicolare al Palazzo, il Padiglione era formato da una piazza delimitata da due edifici loggiati a più piani. In fondo alla piazza, un allargamento del rio dei Giardini consentiva di formare una darsena per un nuovo collegamento via acqua con la laguna. Liberati dalla recinzione, i Giardini sarebbero tornati a far parte della città e le attività di produzione culturale avrebbero funzionato tutto l’anno. Il Palazzo, pensato come un’agorà, luogo dell’incontro e della riflessione collettiva e il Padiglione come una stoà, luogo della pratica e dell’esposizione, sono forme geometriche assolute coincidenti con la loro struttura.
Un architetto costruttore, che ha insegnato a capire la città assimilando la sua storia, per rinnovarla con forme architettoniche elementari e comprensibili. Il silenzio che da anni gli è stato riservato dalla critica è stato rotto da questa mostra (curata da Elisabetta Barizza in collaborazione con Gabriele Neri) che illustra insieme una città e un progetto di architettura, dimostrando lo spessore civile che può avere il mestiere dell’architetto quando l’orizzonte del progetto è la costruzione di un luogo.
Successivamente, quando cominciarono a prevalere le opposizioni alla realizzazione del progetto, fu chiesto a Kahn di adattarlo ad un altro sito, all’interno del recinto dell’Arsenale, a cavallo di un bacino. Anche se il sito era suggestivo, la forza della proposta insediativa era certamente più debole ed era la premessa all’ennesima rinuncia, da parte delle autorità cittadine, ad un progetto che avrebbe conferito a Venezia una nuova spinta al rinnovamento. La questione della presenza di attività lavorative all’interno delle compagini storiche delle città, come strumento di permanenza e vitalità sociale (e anche, addirittura, di conservazione dei manufatti edilizi) è importante e spesso sottovalutata.
Il grande spazio del Teatro dell’Architettura è stato oscurato, senza tuttavia impedire l’ingresso filtrato della luce naturale, creando un effetto efficace per presentare i grandi modelli e i disegni originali fortemente espressivi, soprattutto quelli coloratissimi eseguiti con pastelli a cera.
È singolare e significativo, infine, che oggi in Ticino siano aperte al pubblico contemporaneamente due mostre sulle città, questa su Venezia e quella a Castelgrande su Bellinzona. Proprio quando Lugano e Bellinzona, ingrandite a seguito delle aggregazioni, devono dotarsi di nuovi Piani Regolatori e devono ripensarsi in quanto città, queste stimolanti esposizioni sono un invito all’avvio di un largo confronto, concentrato sui modi di «fare città».