Bibliografia
Luigi Di Ruscio, Poesie scelte, 1953-2010, a cura di Massimo Gezzi, Milano, Marcos Y Marcos, 2019.


Un clandestino della poesia

Con la curatela di Massimo Gezzi, una selezione delle poesie di Luigi Di Ruscio
/ 27.05.2019
di Daniele Bernardi

Quando la radio annunciò la morte di Luigi Di Ruscio era il 2011, e io non ne sapevo nulla. Qualcuno mi disse: «dovresti interessartene: è roba per te». Mi diedi da fare; come un segugio, setacciai gli scaffali di più librerie: quasi niente. Insistendo, saltò fuori un libro delle edizioni Ediesse: Poesie operaie. Scelta antologica. Lo lessi: fu l’equivalente dell’essere messo sotto una pressa. I versi di Di Ruscio avevano l’energia di una macina, di un tritacarne, di un macchinario che non cessava, pagina dopo pagina, di azzannare il mondo, masticarlo e risputarlo sul foglio; la loro folle verve poteva essere paragonata unicamente alla snervante insistenza di Céline.

Allora scoprii che Di Ruscio non aveva che la licenza elementare; che, benché nato a Fermo nel 1930, aveva vissuto la maggior parte della sua vita in Norvegia, dove per quarant’anni era stato operaio in una fabbrica metallurgica – trascorreva i suoi giorni seduto a una macchina che produceva chiodi – e che la sera, tornato a casa dalla moglie e dai quattro figli, si barricava in uno stanzino (il suo «stalletto») per picchiare come un forsennato sui tasti di una vecchia Olivetti fino a tarda notte. Aveva scritto anche dei romanzi: Palmiro, Cristi polverizzati, La neve nera di Oslo; successivamente, nel 2014, Feltrinelli li avrebbe riuniti in un unico volume.  

Se si esclude la considerazione di alcuni intellettuali d’eccezione – Franco Fortini, Salvatore Quasimodo, Giancarlo Majorino e Antonio Porta – non è improprio affermare, come ha fatto Massimo Raffaeli nella sua prefazione al recente volume a cura di Massimo Gezzi Poesie scelte, 1953-2010 (Marcos y Marcos, 2019), che la sua opera è stata relegata, per un’intera esistenza, a uno stato di «semiclandestinità». Ma va detto, anche, che è proprio questa dimensione di esilio – non solo editoriale – quella che meglio distingue la fisionomia e la forza dell’operazione di Di Ruscio.

Alla collana Le ali della nota casa editrice milanese e al lavoro di Gezzi va quindi il merito, oggi, di consegnare finalmente a un pubblico più vasto la produzione di un poeta che sembra davvero non trovare corrispettivi nel panorama letterario italofono del Novecento. Il volume, basato su un progetto antologico dell’autore stesso, ne percorre le sette principali raccolte: da Non possiamo abituarci a morire, del 1953, a L’Iddio ridente del 2008; cioè dalle poesie dell’esordio, scritte quando Di Ruscio era ancora immerso nella lingua materna, fino alle ultime, composte, come la maggior parte, nel totale isolamento idiomatico (anche nella sua famiglia, il poeta era il solo a parlare l’italiano: nessuno dei suoi cari sapeva cosa stesse scrivendo).

La poesia di Di Ruscio e la sua lingua ricca di licenze e invenzioni si presentano come una sorta di fiammeggiante laboratorio in cui si forgia una voce che è, in primo luogo, un atto di resistenza dell’oppresso nei confronti di ogni forma di potere. Riassemblando resti, scarti quotidiani, frammenti in un unico magma ribollente, il poeta elabora un’espressione che è arma e viatico, scudo e linfa che gli permette di sopravvivere, di respirare l’irrespirabile e di non cedere. Saldo nelle sue posizioni di reietto, di outsider, afferma la sua totale idiosincrasia nei confronti di qualsivoglia élite, poiché ogni verso «è un gesto gratuito e disinteressato / a disposizione di tutti gli uomini».  

Difficile, in questa sede, citare estratti che rendano la dimensione eruttiva, debordante, da colata continua, di una scrittura la cui forma è, innanzitutto, massa; ma proviamoci ugualmente: «uscire dalla fabbrica era come uscire da una guerra / dove si esce vivi solo per caso / tutto quell’unto polvere della trafilatrice / i saponi bruciati lo stridio dei ferri / il sudore che scendeva sino agli occhi / bruciava entrava nelle labbra / quest’urlo non potrà essere sentito / neppure gli urli di tutti noi messi insieme / chi non resiste verrà scaraventato / nel massimo dell’atroce / la fabbrica è l’ultima stazione / se ti licenziano è come se venissi sputato fuori nell’ignoto / in una caduta che non verrà attutita».

Solo nella sua ultima silloge, L’Iddio ridente, Di Ruscio abbandona lo stile «mitragliatore» per darsi alla composizione di testi brevi, fulminanti, la cui intensità è quella di una scheggia di ordigno: «negli ultimi anni», scrive, «sono / stato preso dalle poesie cortissime / a comunicazione rapida / poesie violentissime / a presa diretta senza sotterfugi». Una scelta, questa, capace di dare nuovo respiro al lettore che, dopo essere passato attraverso lo sferragliare di una scrittura tanto travolgente, assapora appieno l’intensità racchiusa in un intreccio di pochi versi.

C’è da augurarsi che con questo bel volume, nel quale è possibile scorrere le fragorose metamorfosi di una poesia che, nonostante l’isolamento, non ha mai cessato di farsi sentire, di raccontare la miseria e  la fatica, la rabbia e il metallo, la passione e lo sporco, l’opera del grande Luigi Di Ruscio raggiunga ora più lettori possibile con la forza che gli è propria: quella della bomba.