Un affresco femminile in bianco e nero (copia 1)

A colloquio con il regista Alfonso Cuarón, il cui film «Roma», dopo la vittoria a Venezia, ha ottenuto dieci Nomination agli Oscar
/ 28.01.2019
di Blanche Greco

«È un film di donne, perché sono cresciuto in una famiglia dove c’erano solo donne, ed erano magnifiche come quelle che le hanno interpretate. L’ho sognato, immaginato nei miei pensieri per anni, poi l’ho scritto e l’ho realizzato trattandolo come fosse un film hollywoodiano, dedicandogli tutto il tempo che potevo». Ci ha raccontato il regista Alfonso Cuarón qualche mese fa, a Venezia, dopo aver presentato al festival Roma, e aveva gli occhi lucidi mentre ci spiegava cosa si cela dietro le immagini e la storia di questo suo ultimo film che prende il nome dal quartiere dove ha vissuto la sua infanzia a Città del Messico.

Al momento del nostro incontro il cinquantasettenne regista messicano (Y tu Mamá También; Harry Potter e il prigioniero di Azkaban; Gravity) ancora non sapeva che questo suo «lessico famigliare» in bianco e nero, avrebbe conquistato il Leone d’Oro e, poi ben due Golden Globe come Miglior Regia e Migliore Film Straniero, e forse, tra non molto, lo farà anche trionfare agli Oscar. «L’infanzia è un mondo che ti porti dentro, un momento della vita in cui spesso ti ritrovi testimone di eventi che non capisci, ma che sentimentalmente ti lasciano tracce indelebili: sensazioni che non riuscirai mai a cancellare e ricordi che faranno parte di te per sempre.

Libo era la mia tata indio e con mia madre e mia nonna, sono state i numi tutelari del mio mondo di bambino, è con loro che sono cresciuto, in un microcosmo senza uomini, circondato di affetto, mentre intorno a me esplodevano con violenza le contraddizioni della società e della cultura messicana», ci spiegava Cuarón. Perciò Roma non è la rievocazione nostalgica della sua infanzia perduta, bensì «un anno nella vita di una famiglia (la sua) e di un paese», il Messico, in quel 1970-71 che fu un anno cruciale per entrambi. 

Il film è un affresco intelligente e delicato, dove l’ironia e un certo distacco mitigano il dramma e le passioni che si nascondono nei suoi ricordi di bambino e nella miriade di eventi sentimentali, politici e sociali, della storia al centro della quale c’è Libo, la Cleo del film, ragazza indio a servizio in questa famiglia della media borghesia, che si occupa della casa e dei bambini che incanta con le sue melodiose filastrocche in mixteco, la sua lingua. È Cleo la protagonista di Roma, la silenziosa testimone del dolore della signora Sofia, abbandonata dal marito, il dottor Antonio; dell’angoscia dell’austera nonna; dello spaesamento dei quattro bambini; ma anche dell’affetto di queste due donne nei suoi confronti quando il suo Firmin, fanatico amante di arti marziali, la lascia brutalmente per fuggire dalle responsabilità di un figlio.

Seguendo Cleo scopriamo la desolazione della periferia intorno alla città, la povertà e l’emarginazione; la sanguinosa repressione della manifestazione studentesca del Corpus Christi; il disagio e le rivendicazioni dei lavoratori agrari delle grandi «hacienda». La vediamo piena di speranze nelle sue domeniche di libertà e poi, stremata dall’infelicità, trovare nell’amore dei «suoi» bambini l’unica ragione per vivere. «Quando cresci con qualcuno a cui vuoi bene, di fatto non ti chiedi chi sia e cosa desideri. Libo era la mia seconda mamma e io l’ho conosciuta come donna solo scrivendo questo film, attingendo dalla sua memoria, chiedendole fatti, spiegazioni e dettagli», ci ha raccontato Alfonso Cuarón, capelli bianchi e modi da ragazzo, «E ho scoperto una donna di classe bassa, quasi di un’altra cultura, lo sguardo della quale colora di mille sfumature gli anni della mia infanzia, dandomi un punto di vista completamente diverso su quell’epoca, molto più ricco e complesso del mio».

Gli ci è voluto quasi un anno di provini per trovare Yalitza Aparicio, una Cleo «che non è un’attrice, ma somiglia a Libo non solo fisicamente, ma anche nel modo di sentire» e altro tempo ancora per la ricerca di una casa che fosse la copia di quella originale, recuperando con pazienza, dalle varie famiglie sparse in tutto il paese, i mobili e i quadri che l’arredavano.

Ma Roma non doveva essere la narrazione di un passato cristallizzato, bensì di una realtà vivace, intrisa di emozioni autentiche, tutta da scoprire anche per gli stessi interpreti e la troupe, perciò nessuno di loro ha mai potuto leggere l’intera sceneggiatura. Infatti per volere del regista ogni attore conosceva solo la parte che lo riguardava, in modo che i personaggi venissero colti di sorpresa dai risvolti inaspettati degli eventi, proprio come succede nella vita.

Così nel film, girato in un luminoso bianco e nero, quello modernissimo del formato digitale in sessantacinque millimetri, il passato e il presente si fondono e rinascono perché, ci ha spiegato Alfonso Cuarón: «Era inevitabile che Roma fosse anche una ricostruzione del mio passato con personaggi quasi identici a quelli della realtà di cinquant’anni fa. Ma sapevo che ricreare quel vissuto avrebbe scombussolato le mie certezze. L’incontro del presente con la memoria, il contrasto tra le immagini del film e i miei ricordi, non è stato sempre piacevole per me, perché come regista non puoi giudicare i tuoi personaggi, ma sei obbligato a tener conto delle ragioni di ognuno di loro. E questo mi ha fatto capire molte cose, anche di me stesso».

Poi con un sorriso teso ha concluso: «Ho scoperto anche che Roma è un film nel quale si riconoscono in molti, forse perché ciò che racconto – esperienze, sentimenti, emozioni – è parte della vita di tutti noi. Perciò sono contento che venga distribuito da Netflix, perché anche se circolerà poco nei cinema, avrà più schermi virtuali e più pubblico di quanto il mio Roma, film intimista e drammatico, parlato in spagnolo e mixteco, avrebbe mai potuto aspettarsi».