Captain Fantastic è un titolo degno di un supereroe dei fumetti, ma anche se il film tratta di tutt’altro, il suo interprete Viggo Mortensen, sembra accentrare su di sé l’aura del condottiero, il destino dell’eroe e il carisma del leader, sia che vesta i panni di Aragorn, re guerriero del Signore degli Anelli; o quelli di un micidiale killer come in La promessa dell’assassino; ma anche se, per una volta interpreta un padre un po’ speciale, come in questa storia, con sei figli a carico che vuole trasformare in esseri umani colti, indipendenti ed anticonformisti.
«Quando ho cominciato a leggere la sceneggiatura ho pensato che fosse la solita storia di una famiglia americana di sinistra, che tempra i figli con le tecniche della sopravvivenza e si scontra con il modo di pensare dell’America conservatrice. E invece avevo sbagliato», esordisce Viggo Mortensen, quando lo intervistiamo alla Festa del Cinema di Roma dove il film Captain Fantastic di Matt Ross, miglior regia al 69esimo Festival di Cannes (sezione «Un Certain Regard»), si è anche aggiudicato il Marco Aurelio d’Oro, Premio del Pubblico.
«È una storia di ideali e di amore. Ben Cash, è uno dei più bei personaggi che mi sia- no capitati in questi ultimi anni» ha affermato Viggo Mortensen, la voce morbida, lo sguardo ceruleo gentile e fiero, che sono parte del fascino di questo talentuoso attore danese-americano, che nei panni di Ben è un emozionante amalgama di forza e di fragilità paterna. «La dedizione e l’onestà con la quale ha improntato il rapporto con i suoi figli, ti conquistano e ti lasciano senza fiato, perché Ben vuole essere il miglior padre del mondo, una sorta di “benevolo dittatore”, ma è possibile? Essere dei bravi genitori è difficile e questo film ci dà molto a cui pensare».
Captain Fantastic racconta la scelta estrema di una coppia che, decisa a sottrarsi alle influenze della moderna cultura consumistica, vive con i sei figli lontano dalle metropoli, in mezzo alle grandi foreste del Nord America. Ben ha abbandonato ogni ambizione personale per dedicarsi alla loro educazione, li allena fisicamente e intellettualmente in quel lontano paradiso naturale, insegnando loro a vivere di caccia e di pesca; a scalare le montagne e a lottare per la loro vita; ma anche a coltivare il gusto per lo studio: dalla matematica, alle lingue straniere, alla letteratura, alla musica, alla religione, per farne dei «re filosofi» capaci di difendere quello in cui credono. Ma a seguito di un evento tragico, i ragazzi, da quello di cinque anni, a quello di diciassette, di comune accordo costringono il padre ad affrontare con loro un viaggio attraverso quell’America che non conoscono, e Ben è obbligato a confrontarsi con la realtà e le proprie teorie educative.
Commovente, divertente, ironico, a tratti di una comicità esilarante, Captain Fantastic è una straordinaria prova d’attore per il cinquantasettenne Mortensen, attorniato da sei giovani interpreti, tutti capaci di tenergli testa e di contendergli la scena: «Ho subito amato Ben, e, come faccio per ogni personaggio, ho cercato di ricostruire il suo passato e la sua psicologia per farne un uomo vero e reale. Mi sono chiesto dove fosse nato, che lavoro facesse. Ho creato dei dettagli che lo raccontassero; ho imparato dalle sue stesse caratteristiche e abilità. Sono uno sportivo e suono il pianoforte, ma ho dovuto imparare il free climbing che non mi piace, e a suonare la chitarra. E dovevo farlo bene, perché avevo “i miei figli”, alle calcagna. Erano attori senza esperienza, ma brillanti, curiosi, e dovevo essere un padre sempre all’altezza delle loro aspettative, altrimenti la famiglia sullo schermo non avrebbe funzionato», racconta Viggo Mortensen, con ironia e affetto, ricordando le lunghe giornate di prove, il set, gli spostamenti, le domande interminabili e le e-mail che i ragazzi ancora gli mandano.
«Non è un film ideologico, non ha messaggi, ma parla di un problema importante della nostra società, la mancanza di comunicazione. La polarizzazione che esiste in molte parti del mondo per ragioni di classe, di razza, di nazionalità; dovuta all’omofobia, alla misantropia, all’odio per i migranti, all’ideologia politica, e che va combattuta favorendo il dialogo. Nessuno può vivere isolato».
Parlandogli ci si rende conto che quel carisma che il cinema e tanti registi gli riconoscono, è una cosa vera, una sorta di «sortilegio personale» che emana dalla personalità di questo attore che, dal set del film Hidalgo, storia vera di un cow-boy e del suo puledro impegnati in una corsa contro i più noti cavallerizzi del mondo, si portò a casa tutti i cavalli, che altrimenti sarebbero stati abbattuti. Che non esitò a trasferirsi in Nuova Zelanda per alcuni anni per girare la trilogia di Peter Jackson Il Signore degli Anelli, che Mortensen definisce: «Un’esperienza lunga e intensa come una vita. Ho un ricordo vivido di quel Paese, della natura, del set dove tanta gente si è incontrata, si è innamorata, si è lasciata, si è sposata ed io sono in contatto con molti di loro. E mi piace tornarci con la mente».
Della sua infanzia in Argentina, del periodo newyorchese, o di quello trascorso in Danimarca come poeta e musicista prima d’iniziare la carriera di attore, Viggo Mortensen non ha archiviato niente: ha da poco inciso un disco di concerti per pianoforte e, sorseggiando mate racconta che presto esordirà come regista: «È un’esperienza che voglio fare, ho appena finito la sceneggiatura. Ma non vi dico altro, è un progetto in divenire e non è bello contrariare il destino parlandone».