Raffaello, Ritratto di donna detta «La Velata», 1512-13 ca., Firenze, Gallerie degli Uffizi, Galleria Palatina. (Gabinetto fotografico delle Gallerie degli Uffizi – Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo)


Tu sol, cui fece il Ciel dono fatale

Raffaello Sanzio a cinquecento anni dalla morte
/ 20.04.2020
di Gianluigi Bellei

Quest’anno ricorre l’anniversario della morte di Raffaello Sanzio (Urbino, 1483 - Roma, 1520). Vent’anni di attività artistica, dal 1500 quando aveva solo 17 anni, al 6 aprile 1520. Muore lo stesso giorno della nascita e accanto gli posero la tavola della Trasfigurazione che stava realizzando per il cardinal de’ Medici tanto che, scrive Vasari, «faceva scoppiare l’anima di dolore a ognuno che quivi guardava». Per lui ovviamente non si può parlare di opere della giovinezza e della maturità anche se la parabola della sua vita appare completa. Dai primi affreschi del Cambio alle opere in Vaticano sotto la protezione di Giulio II e Leone X. Ma vediamo il giudizio che Vasari gli dà nelle Vite.

Nel Proemio scrive che «l’arte nostra è tutta imitazione della natura». E, tra gli altri, cita il ritratto di Leone X di Raffaello fra le meraviglie anche perché al suo interno vi è «una palla della seggiola, brunita e d’oro, nella quale a guisa di specchio si ribattono, tanta è la sua chiarezza, i lumi delle finestre, le spalle del Papa e il rigirare delle stanze». Ed è proprio imitando la natura che l’uomo diventa quasi divino, gareggiando con il creatore.

Secondo Vasari sono tre i modi per raggiungere la perfezione: i lumi, i colori e le ombre. Per le ombre dà la palma a Leonardo, per la luce a Raffaello con termini quali chiarezza, splendore, risplendere aria lucida, alluminati… La perfezione sta nel volto di Cristo della Trasfigurazione. Anche se la terza via, quella dell’unione del colorito, spetta al Giudizio universale di Michelangelo. A Raffaello, sostiene Vasari, manca quella profondità e terribilità tipiche di Leonardo. Lui è l’artista della grazia e della dolcezza e sempre e solo Michelangelo riesce a superare l’opposizione fra grazie e terribilità. Raffaello cerca di imitare Michelangelo ma non ci riesce. Un errore fatale perché impossibile. Il consiglio è quello di «puntare sulle proprie capacità senza lasciarsi trasportare dal desiderio di imitare gli altri», come scrive Paola della Pergola nel suo commento alle Vite. Enrico Mattioda, nella bibbia per lo studio degli scritti vasariani, redatto assieme a Enrico Pozzi, rimarca che per Vasari ci sono vari modi per giungere alla perfezione e che quella di «Raffaello è di grado più basso».

Detto questo riportiamo un fatto curioso, anche se di non certa autenticità. L’artista bolognese Francesco Francia, molto noto nella sua città, dedica un sonetto a Raffaello nel quale troviamo scritto «… Tu sol, cui fece il Ciel dono fatale che ogni altro eccede, e sopra ogni altro regna…». Il Francia è in contatto con Raffaello che dipinge a Roma per il cardinal de’ Pucci una tavola raffigurante Santa Cecilia da mandare a Bologna nella cappella di San Giovanni in Monte.

Raffaello spedisce il dipinto al Francia per farlo collocare nella cappella. Aperta la cassa fu tanto lo stupore del Francia, scrive Vasari, «che e’ ne ebbe, e tanto grande la maraviglia, che, conoscendo qui lo error suo e la stolta presunzione della folle credenza sua, si accorò di dolore, e fra brevissimo tempo se ne morì». Magari muore di veleno o di «giocciola» (un colpo apoplettico), come scrive dopo; ma immaginate un uomo che vede svanire tutta la sua vanità artistica dopo aver visto tanta bellezza. (Naturalmente questa versione della morte del Francia è confutata con veemenza da Carlo Cesare Malvasia nella sua Felsina pittrice del 1678).

Figlio del pittore Giovanni Santi, che lo tiene a bottega, a 16 anni Raffaello è già un pittore autonomo. Verso il 1500 crea un sodalizio con il Perugino. Di questo periodo è Lo sposalizio della Vergine ora alla Pinacoteca di Brera a Milano. Raffaello recepisce e rielabora il fare degli altri artisti negli anni fiorentini dal 1504 al 1508. Influssi notevoli gli vengono da Leonardo e da Michelangelo. Raggiunge presto un delicato equilibrio fra dolcezza e imitazione della natura.

Del 1508 è il Trasporto di Cristo al sepolcro ora alla Galleria Borghese di Roma, nel quale la composizione e la classicità trovano un perfetto equilibrio. Dal 1508 è a Roma per interessamento del Bramante, architetto di San Pietro. Qui per papa Giulio II affresca le stanze del Vaticano. Prima la Stanza della Segnatura (1508-1511), poi quella di Eliodoro (1511-1513). Nella Stanza della Segnatura troviamo la Scuola di Atene nella quale una nuova San Pietro si raccoglie attorno ai massimi pensatori della storia; da Platone a Aristotele, identificati dai libri che hanno in mano, il Timeo e l’Etica. I due pensatori rappresentano le correnti del pensiero classico: l’idealismo e il realismo. Platone indica infatti il cielo mentre Aristotele volge il palmo della mano a terra. Platone ha il volto di Leonardo, mentre Euclide quello di Bramante. Poi sono raffigurati Socrate, Zoroastro, Tolomeo…

Nella Stanza di Eliodoro Raffaello dipinge il programma politico di Giulio II: il soccorso divino a favore della Chiesa. Splendida la Liberazione di San Pietro, suddivisa in tre parti. Al centro, dietro le sbarre del carcere, il santo viene soccorso da un angelo che nella parte destra lo porta fuori, mano nella mano. A sinistra i carcerieri si accorgono della fuga. Con Leone X affresca la Stanza dell’incendio di Borgo. Di questo periodo è la pala dell’Estasi di Santa Cecilia a Bologna. Nel 1512 dipinge il Ritratto di Giulio II, vecchio, pensieroso. Nel 1518-19 invece rappresenta Leone X assieme ai cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi. Tre figure imponenti in un intreccio spettacolare di sguardi.

L’ultimo lavoro è la Trasfigurazione oggi alla Pinacoteca Vaticana. Opera terminata probabilmente dai suoi allievi, almeno nella parte inferiore. D’altronde non poteva realizzare tutti quei dipinti da solo. Per questo era alla testa di una numerosa bottega che comprendeva fra gli altri Giulio Romano, Pierfrancesco Penni, Giovanni da Udine, Pierino del Vaga. Lui si limitava a dare qualche suggerimento nella fase preparatoria del lavoro e a qualche sporadico tocco finale. Alcuni parlano di un progressivo decadimento del suo lavoro pittorico a favore dei nuovi interessi archeologici e architettonici.

Amante della bella vita e delle donne, di lui rimangono alcuni scritti. Il primo autografo è un promemoria per Domenico Alfano (Perugia, 1480-1553?), amico e pittore. Il testo, con numerose imperfezioni ortografiche, parole erroneamente unite, mancanza di accenti e punteggiatura, «rivela la sua modesta preparazione letteraria», scrive Ettore Camesasca nel commento a Tutti gli scritti. Alcuni di questi non sono degli originali e la famosa Lettera a Leone X è redatta probabilmente da Baldassarre Castiglione su ispirazione dell’artista che qui chiede al Papa di poter eseguire la pianta della città di Roma.

Quest’anno doveva essere quello delle celebrazioni. Al momento in cui scriviamo queste righe, quella organizzata alle Scuderie del Quirinale di Roma dal 5 marzo al 2 giugno, con oltre 120 opere del maestro provenienti da importanti collezioni di tutto il mondo, è chiusa, come tutti i musei, a causa della pandemia in atto. Chi volesse fare un tour virtuale passeggiando fra le sale già allestite può farlo visitando il sito www.scuderiequirinale.it.