In tempi in cui la produttività degli artisti musicali appare ben lontana dalla prolificità quasi eccessiva tipica delle carriere giovanili di performer più stagionati, sono stati in molti a stupirsi del fatto che la raffinata band americana dei The National, nota per la cura minuziosa nella produzione di ogni suo sforzo, abbia dato alle stampe questo nuovo I Am Easy to Find a meno di due anni dal precedente (e notevole) Sleep Well Beast.
In realtà, il motivo sta nella genesi stessa del disco, che lo differenzia dai precedenti lavori del gruppo: I Am Easy to Find nasce infatti da uno stimolo ben preciso, ovvero il recente cortometraggio dal medesimo titolo diretto dal regista e artista Mike Mills (da non confondersi con l’omonimo bassista dei R.E.M.): un film dalle atmosfere dolenti e nostalgiche, ammantato di un bianco e nero quasi asettico, che ben si adatta alle suggestioni demodé tanto care alla formazione di Cincinnati.
Di fatto, l’influsso di una fonte esterna è percepibile nel carattere stesso dell’album, che spinge la band a tentare nuovi esperimenti stilistici, pur confermando la propria maestria nella difficile arte di coniugare il cantautorato rock di classe – interamente basato sulla minuziosa e più introspettiva autoanalisi – con l’uso di basi elettroniche condite di drum machines, campionamenti ed effetti digitali: e, come dimostra il primo singolo estratto dall’album, You Had Your Soul With You, la combinazione, apparentemente azzardata, risulta tanto riuscita proprio grazie alla costante finezza compositiva e interpretativa della band.
Stavolta, però, accanto alla «sindrome del perdente» che da sempre caratterizza la musica dei The National – ovvero, quella disillusione tipica della voce narrante dal timbro profondo e il tono sconfitto e inevitabilmente rassegnato, incarnata dal cantante Matt Berninger – troviamo un nuovo elemento, definibile, per certi versi, come «spirituale»: l’uso di un’intera orchestra d’archi e delle voci angeliche del Brooklyn Youth Chorus, che qui intessono cori in puro stile da funzione religiosa, ammanta infatti l’intero album di quella che potrebbe dirsi una sorta di «sacralità del dolore».
Ecco quindi che suggestioni a cavallo tra il canto gregoriano e i cori da chiesa anglosassoni si fondono in modo imprevedibile quanto azzeccato in Dust Swirls in Strange Light e perfino in brani quasi esclusivamente a cappella quali l’inquietante e ipnotico Underwater e l’altrettanto indecifrabile Her Father in the Pool. Allo stesso tempo, pezzi struggenti come il magistrale Hairpin Turns e la toccante ballata Not in Kansas offrono un campionario perfetto delle inquietudini e tensioni per cui i The National si distinguono, a partire dalle liriche concitate e quasi disperate (che nel caso di Not in Kansas contengono perfino una doppia citazione-tributo a Lifes Rich Pageant, album dei connazionali R.E.M. risalente al lontano 1986), fino ad arrivare alle note surreali e dolenti proposte in So Far So Fast e Roman Holiday.
Non solo: con questo CD, i The National decidono per la prima volta di non accontentarsi del contributo vocale del solo Berninger, ma di affidarsi anche alle voci di diverse vocalist femminili ingaggiate per l’occasione, ognuna delle quali dona una sfumatura e un’intenzione differente al brano che la vede impegnata in contrappunti vocali di grande eleganza con lo stesso Matt (si vedano Hey Rosey e Oblivions, ma anche The Pull of You, il quale si distingue per un intrigante cantato in recitativo, reminiscente, tra gli altri, di certi exploit a firma dei già citati R.E.M.); mentre Where Is Her Head vede Berninger utilizzare tali voci come vero e proprio tappeto sonoro a cui sovrapporre il proprio cantato.
Così, se Quiet Light e la struggente title track sono ammantate di sonorità elettroniche, al punto da ricordare (seppure in chiave ben più tormentata e riflessiva) gli exploit di Depeche Mode e Pet Shop Boys, ecco che con sforzi del calibro di Rylan si torna al tradizionale pezzo ritmato dagli accenti rock, modello quasi da manuale di quei brani trascinanti di cui i National inseriscono almeno un esemplare in ogni album.
Eppure, la particolarissima (e solo apparentemente incongrua) mistura stilistica che contraddistingue I Am Easy to Find funziona come un impeccabile meccanismo a orologeria, permettendo ai The National di realizzare un lavoro ancor più originale del solito – il tutto sempre mantenendosi ai medesimi, altissimi livelli qualitativi a cui si sono sempre attenuti.
Soprattutto, stavolta la band riesce nella non facile impresa di stupire perfino i fan più affezionati, grazie alla complessa quanto azzeccata commistione tra la tipica, dolorosa malinconia di sempre e le nuove sfumature e contaminazioni stilistiche: una scelta che permette di raggiungere vette d’ancor più elevata e straziante drammaticità, dando vita a un effetto generale ammantato di una finezza così sapiente – e, soprattutto, di tale onestà – da risultare quasi sconcertante per l’ascoltatore.