Hermann Broder ha almeno tre vite quante sono le donne che si porta appresso. Forse per debolezza, forse per mancanza di coraggio il figlio del reb Shmuel Leib di Cywków in Polonia inganna tutti, a cominciare dal corrotto rabbino Milton Lambert per il quale scrive libri, articoli e discorsi. Fa il ghostwriter a New York verso la fine degli anni quaranta quel simpatico e volubile impostore, la cui famiglia è stata spazzata via dalla Shoah. Si è salvato grazie alla sua domestica Jadwiga che lo tenne nascosto in un fienile nel villaggio di Lipsk. Poi con lei ha attraversato l’oceano e, giunto in America, l’ha sposata con rito civile. Lui ebreo, lei cattolica ma pronta a convertirsi.
Sembra una storia a lieto fine che s’ingarbuglia proprio quando la realtà si tinge di rosa come le guance di quella contadinotta che non sa né leggere né scrivere, non parla yiddish e biascica solo poche parole di inglese. Qui ha inizio Nemici lo splendido romanzo del premio Nobel Isaac Bashevis Singer proposto ora da Adelphi nell’ottima versione di Marina Morpurgo. Pubblicata a puntate nel 1966 sul quotidiano yiddish «Forverts», poi tradotta in inglese, questa storia che fonde commedia e tragedia, nel 1989 è diventata un film con Ron Silver e Angelica Huston grazie al regista ebreo Paul Mazursky.
Jadwiga ha trovato il paradiso accanto al suo uomo che sostiene di dover viaggiare per vendere libri. Lei fresca e timida si porta ancora dietro i profumi della lontana Lipsk, lui subdolo peccatore viaggia fra Brooklyn e il Bronx, dove l’aspetta la giovane amante ebrea Masha, una sopravvissuta bella e imprevedibile, che ha conosciuto con la madre Shifrah in Germania e ritrovato nella Grande Mela. È separata dal marito Leon, un medico fasullo, e aspetta con impazienza di sposare il suo nuovo spasimante, quell’Hermann sentimentalmente ubiquo e del tutto incapace di mettere ordine nella propria vita. Gli è rimasto addosso qualcosa di Yasha Mazun, il protagonista di un precedente romanzo di Singer, Il mago di Lublino, un incorreggibile dongiovanni, ambiguo e inquieto, diviso fra la tradizione ebraica e l’incapacità di vivere secondo le regole dei Padri, pronto ad abbandonare la moglie per fuggire con una vedova cattolica che soddisfa la sua lussuria.
Ma Hermann è un soggetto molto più domestico: passa dalla noiosa quiete casalinga alla seduzione erotica con poche fermate di metro che lui trasforma in immaginarie scorribande per l’immensa America. I suoi pensieri sono inarrestabili: sogna processioni funebri, combatte la guerra quotidiana contro i nazisti anche in tempo di pace, dubita del Dio della misericordia. Il passato sembra non passare mai e i suoi sogni si popolano di fantasmi perché vita e speranza affondano nell’incubo della Shoah. Ma Singer, erede di un’affabulazione generosa maturata nell’Europa orientale nel corso dei secoli, osserva le cose con sguardo obliquo, che si apre al sorriso e scopre il grottesco dietro la facciata del dolore. Al pari del fratello maggiore Israel Joshua, emigrato come lui negli Stati Uniti, autore di romanzi straordinari come I fratelli Ashkenazi e La famiglia Karnowski, che morì poco più che cinquantenne nel 1944.
Isaac Bashevis evoca un ebreo errante incalzato dal passato, senza una vera un’identità, un edonista pieno di dubbi che si avviluppa nella menzogna e soccombe ai giochi del destino. Mentre Masha dà in escandescenze ricompare come dal nulla la prima moglie, Tamara, sopravvissuta all’Olocausto che ha invece travolto i loro due bambini. Dice di essere ormai una donna morta la cui vita è stata sbucciata come una cipolla. Ma alla fine sarà la più intraprendente, capace di gestire la libreria di uno zio coinvolgendo lo stesso Hermann.
E che dire ora a Jadwiga che, a suo tempo, era stata a servizio a casa Broder? La signora di oggi è ancora sempre la domestica di allora: di fronte a Tamara è pronta ad andarsene. Se non ci fosse di mezzo l’imprevedibile Masha che crede di essere incinta e riesce a farsi sposare. Una vera farsa, dice la madre di lei, che diventa quasi surreale nel momento in cui si scopre che l’unica donna gravida è Jadwiga. Una girandola di eventi da cui lo stesso Hermann, sempre più fatalista, non riesce ormai a sottrarsi: si lascia condurre dai Poteri, che si «chiamino Caso, o Provvidenza o Tamara». E non riesce a dominare nemmeno quello strano riso che smuove dentro di sé l’infelicità più nera. Certo, Tamara lo lascia libero e preferisce accompagnarsi alla domestica di un tempo, ma c’è sempre ancora Masha afflitta da incubi e visioni allucinanti dopo la falsa gravidanza.
In una New York talvolta misteriosa e fiabesca, dove s’aggira l’eterno viandante Hermann vittima dei propri inganni, Singer evoca un mondo di fantasmi che attraversano la vita con l’espressione amara della disperazione e la smorfia, l’urlo di Masha di fronte al cadavere della madre suicida. L’amore soccombe nella memoria dei sopravvissuti, in un mondo caotico e crudele dove anche l’Onnipotente sembra implacabile e spietato. Ecco i veri nemici dell’amore che questo libro declina fra un uomo e tre donne senza alcuna via d’uscita dispensando però ludiche e gioiose bizzarrie velate di malinconia.
Singer ha scritto un formidabile romanzo che si affaccia sul vuoto e la perdita: della famiglia, della patria, della fiducia in se stessi e nella vita. Masha segue il destino di sua madre, mentre Hermann, sempre in fuga anche da se stesso, scompare. Chissà dove sarà, si chiede Tamara, che il rabbinato dichiara sciolta da ogni legame matrimoniale. Potrà risposarsi. Magari, dice lei, nel mondo a venire. Chissà, forse con Hermann.