Bibliografia
Daniel Kehlmann, Il re, il cuoco e il buffone, traduzione di Monica Pesetti, Feltrinelli, p. 318, € 18,00.


Tra illusioni e storie senza fine

Nel nuovo romanzo del tedesco Daniel Kehlmann la storia si mescola con la fantasia
/ 03.06.2019
di Luigi Forte

Daniel Kehlmann è stato uno scrittore precoce. Pubblicò il suo primo romanzo nel 1997, poco più che ventenne. Pochi anni dopo raggiunse il successo internazionale con Io e Kaminski, la divertente storia di un giovane e spregiudicato giornalista, Sebastian Zöllner, pronto a tutto pur di scovare un vecchio pittore e scriverne la biografia, nella segreta speranza che questi morisse al più presto contribuendo così al successo del libro. Una satira affacciata sul mondo dell’arte che l’ironia di Kehlmann colora di infinite sfumature.

Era questo anche il suo modo di guardare al passato suggerendo non di rado suggestive analogie con il presente. Nel bestseller La misura del mondo (Feltrinelli 2006) l’autore si diverte con competenza e finezza alle spalle di due geni come l’enciclopedico Alexander von Humboldt inventore della geografia moderna, e il matematico e astronomo Friedrich Gauss alle prese con la curvatura dello spazio, accompagnati in un fantomatico congresso di scienziati tedeschi nella Berlino del 1828.

Kehlmann, originario di Monaco ma cresciuto a Vienna, dove si è lau-reato in filosofia, è sempre alla ricerca di mondi bizzarri, come testimonia Fama. Romanzo in nove storie (Feltrinelli 2010), un labirinto di gerghi ipertecnologici, esistenze virtuali, storie improbabili fra YouTube e gli squilli dei cellulari. Forse non è casuale che qualcuno abbia definito lo scrittore un realista magico accostandolo a colleghi d’antan come Alfred Kubin, Leo Perutz e persino a García Márquez. La definizione calza a pennello per il suo ultimo splendido romanzo Il re, il cuoco e il buffone proposto da Feltrinelli nell’ottima versione di Monica Pesetti.

Protagonista è Tyll Eulenspiegel, figura del folclore del nord della Germania e dei Paesi Bassi, personaggio irriverente, sempre pronto a farsi beffe degli altri, un giullare osannato dal popolo e conteso dai potenti. Si dice che abbia vissuto nella prima metà del Trecento, ma Kehlmann lo colloca tre secoli più avanti, al tempo della terribile Guerra dei Trent’anni. Così la vita di Kyll si dischiude su uno scenario terrificante, anzi diventa lo spunto per collegare figure storiche che l’autore rivisita non di rado con curiosità e malizia e non senza un tocco di irrefrenabile fantasia. Come nel caso dei due gesuiti, Oswald Tesimond e Athanasius Kircher, responsabili della condanna a morte di Claus, il padre di Tyll, un mugnaio appassionato di astri e di magia, vittima del fanatismo religioso in tempi in cui bastava possedere un libro proibito per finire sul rogo. Ma ambedue furono anche figure storiche, molto attive nella Compagnia di Gesù. Kircher, filosofo e museologo tedesco insegnò per decenni nel Collegio Romano, dove aveva allestito una wunderkammer.

Nelle mani di Kehlmann egli non è solo l’erudito che decodifica i geroglifici dando alle stampe il suo Oedipus Aegyptiacus o discetta con il matematico Olearius, ma anche un appassionato studioso del sangue di drago come antidoto contro la peste, oltreché l’ideatore di un curioso pianoforte a gatti. E persino il re d’inverno Federico V, così detto perché regnò sul trono di Boemia per una sola stagione, non sfugge ai tiri mancini del narratore. La sua prima notte di nozze con la moglie inglese Elisabetta Stuart, figlia di Giacomo I, si trasforma in un gioco comico e farsesco di cui i protagonisti non conoscono le regole. Lui che l’afferra di colpo come fosse impazzito, mentre lei, più alta, se lo scrolla facilmente di dosso urlando: «Non fare lo stupido!», per poi mollargli una sberla quando cerca di accarezzarle il seno.

Kehlmann si dimostra un maestro di umorismo e un autore orientato verso quel postmoderno di cui Umberto Eco aveva fatto grande uso a cominciare dal suo primo romanzo Il nome della rosa. Anche lo scrittore tedesco ama mescolare finzione e realtà storica creando figure reali che non di rado fanno cose inventate: una prospettiva molto gustosa in cui si inseriscono finti e veri dati culturali, mentre la narrazione, fluida e scorrevole, rapisce il lettore. È questa la cifra stilistica di Kehlmann: leggerezza e propensione al gioco e all’ironia costante che predilige tutto ciò che è insolito e inusuale. E il buffone Tyll ne è l’espressione più compiuta, anche se il suo ruolo va ben oltre il destino del vagabondo per trasformarsi in una sorta di imprevedibile tessitore degli eventi. Per altro la sua esperienza, fin da ragazzo, ci racconta la triste storia del mondo: un padre finito ingiustamente sulla forca, e tutt’intorno una realtà, in cui dominano miseria e distruzione, e poi il difficile confronto con i potenti, da cui dipende la sua stessa vita.

Tyll è un soggetto irrelato, libero di esprimersi, ma senza difese, esposto a ogni violenza. È la metafora di una fantasia che il frastuono brutale del mondo tende a offuscare e distruggere. Il romanzo di Kehlmann cela in effetti anche una profonda tristezza la cui eco giunge fino ai poeti barocchi cari al suo autore, come Gryphius e Fleming, senza dimenticare i mille risvolti epici suggeriti forse anche dal grande scrit-tore Grimmelshausen con l’epocale romanzo picaresco del 1669 L’avventuroso Simplicissimus.

L’eco della guerra e di battaglie terribili come quella di Zusmarshausen non lontano da Augusta in Baviera, fa da sfondo a molte scene di grande intensità e ritorna nel racconto dell’abate del monastero di Andechs, dove, prima le milizie imperiali e poi quelle protestanti hanno fatto razzia di ogni cosa. Lì s’è rifugiato Tyll, che ora tre uomini del reggimento dragoni di Lobkowitz su invito dell’imperatore vorrebbero portare alla corte di Vienna. Uno dei capitoli più intensi del romanzo si svolge in un cunicolo sotterraneo, dove alcuni uomini, e lo stesso Tyll a suo tempo arruolato, tentano di sfuggire alla morte mentre al di sopra si scatena l’inferno. Ma a questa terrificante claustrofobia non di rado si contrappone il respiro della natura con paesaggi di neve che sembrano richiamare talune immagini dei Mesi di Bruegel il vecchio.

Piacere e dolore, ironia e disperazione colorano i paesaggi di questa epica e insolita avventura. Sembra che ogni cosa sia destinata a estinguersi tragicamente. Ma alla fine è la voce del grande funambolo che risuona forte e fiduciosa: «Io non muoio quaggiù – urla dal profondo tunnel in cui si è cacciato coi compagni –. Io non muoio oggi. Io non muoio!». Quel buffone un po’ grottesco, quintessenza forse del libero pensatore, è il protagonista della vita nei suoi infiniti volteggi, il vero eroe che domina il paesaggio delle illusioni e delle storie che non hanno mai fine. È, in fondo, l’inesausto suggeritore di una scrittura che rievoca la storia per dare spazio all’immaginazione.