Dove e quando
Tosca, Milano, Teatro alla Scala, fino all’8 gennaio 2020. teatroallascala.org


Tosca tra bellezza e potere

La prima volta dell’opera pucciniana in apertura di Stagione al Teatro alla Scala
/ 16.12.2019
di Sabrina Faller

Questa volta il Teatro alla Scala ha puntato sul sicuro: tre grandi interpreti tra cui una diva amatissima, un regista apprezzato già lo scorso anno, comprimari di provata professionalità e uno Chailly «innamorato» delle partiture pucciniane al punto di proporci sempre qualcosa di speciale, in tal caso la Tosca della «prima» al Teatro Costanzi di Roma il 14 gennaio 1900, leggermente diversa da quella ufficialmente approvata dal compositore. Anche il sovrintendente Pereira – che mentre scrivo è in partenza per Firenze, dove andrà a dirigere il Teatro del Maggio Musicale – voleva lasciare alla Scala il ricordo di un trionfo, e c’è riuscito. Un Teatro che mostra al mondo tutte le sue capacità creative e tecniche, un Paese che mostra al mondo quella «grande bellezza» troppo spesso imbrattata, troppo spesso nascosta, tutto quello che si è visto la sera del 7 dicembre, in teatro o nei cinema o alla tivù, è merito anche suo.

Dunque, una Tosca sontuosa, monumentale e in movimento, con scene o pezzi di scena che salgono e scendono, particolari amplificati come l’enorme ostensorio del secondo atto, dipinti che si animano, e a renderla contemporanea un rapporto con il cinema che a Puccini non sarebbe dispiaciuto, dall’arrivo in fuga di Angelotti fuori dalla chiesa di S. Andrea della Valle, al suicidio di Tosca che si getta nel vuoto da Castel S. Angelo e viene «inquadrata» dall’alto nel finale.

Accanto a questo aspetto molto evidente, e molto evidenziato dalla critica, ne esiste un altro forse meno rilevato, ed è il fatto che Livermore delinea un suo ritratto della protagonista. Il finale del secondo atto si dilata nella lunga scena della morte di Scarpia, a metà fra Hitchcock e Tarantino, ma è rimasto sorpreso chi si aspettava la pantomima codificata e lasciata in eredità da Sarah Bernhardt (per la quale il ruolo di Tosca fu elaborato da Victorien Sardou) alle dive della lirica, che vedeva l’eroina lavarsi il sangue dalle dita con la bottiglia dell’acqua, strappare il salvacondotto dalle mani rattrappite di Scarpia, piazzargli le candele ai due lati della testa e sul petto il crocifisso staccato dalla parete, per poi andarsene.

Nella regia di Livermore a ricordare quel momento restano solo due ceri inutilizzati. La sua Tosca quasi sprofonda nell’enormità del gesto appena compiuto e invece di avvicinarsi al cadavere di Scarpia, si allontana da lui e si rivede in procinto di compierlo, attraverso la presenza di una controfigura che ritroveremo nel finale. Sono due Tosche ben diverse quella di Sardou-Puccini e quella di Livermore: la prima è determinata, sicura e fiera (e avanti a lui tremava tutta Roma…!) del suo delitto, la seconda ne resta quasi traumatizzata e forse intravede già il fantasma della propria morte.

Il terzo atto sovrastato da un’enorme ala d’angelo grigia sullo sfondo di nuvole cineree sembra trasportarci nel cielo di Wim Wenders più che nella seducente alba romana. Le scene, evocanti una monumentalità ronconiana meno inquieta, sono di Giò Forma, i costumi non troppo felici, li firma Gianluca Falaschi. Anna Netrebko, la magnifica diva, la grande interprete che i piccoli errori rendono più umana, non ruba la scena ai co-protagonisti Francesco Meli (Cavaradossi) e Luca Salsi (Scarpia), il primo ben compreso nel suo ruolo di pittore romantico, il secondo attento a costruire uno Scarpia tutto brutalità e niente raffinatezza, che nel tempo potrebbe crescere in complessità. Certo anche altre scene, altre Tosche rimanda la memoria. E la scomparsa recente di un regista innovatore quale fu Jonathan Miller non può non evocare il ricordo di una Tosca indimenticabile, realizzata a Firenze nel 1986, che trasferiva la vicenda nella Roma del 1944 tra nazifascisti e partigiani, inaugurando nella patria del melodramma il dibattito fra sostenitori del nuovo teatro di regia e regia tradizionale. Miller attuò questo trasferimento di tempo storico perché il pubblico si identificasse maggiormente nella vicenda, perché Tosca è prima di tutto una critica al potere e alle sue derive, la dittatura, la tortura, in ogni tempo e in ogni luogo. È questo il senso profondo dell’opera, che nella regia di Davide Livermore appare un po’ offuscato dal gusto per gli effetti speciali.

E tuttavia la regia di Livermore mette d’accordo tutti, tradizionalisti e innovatori moderati, tanto più che in Italia di innovatori spinti non ne esistono. Lo fa con intelligenza, professionalità e cultura, utilizzando moduli di una cifra personale, che mette in rilievo la teatralità dell’opera ed esalta al massimo grado le opportunità offerte dalla moderna tecnologia, con un occhio particolarmente attento al pubblico televisivo e cinematografico.

Nota
Per maggiori informazioni sulla Tosca, v. Giovanni Gavazzeni (L'anno di Tosca)