Tillmans, artista spiazzante

Fino al 1 ottobre la Fondazione Beyeler di Riehen apre per la prima volta le sue porte alla fotografia
/ 18.09.2017
di Giovanni Medolago

Quando i responsabili della Fondazione Beyeler annunciarono che, per festeggiare il ventennale dalla sua apertura, il museo avrebbe ospitato per la prima volta una grande mostra dedicata a un fotografo, il vostro cronista provò vivo entusiasmo: la prestigiosa Galleria basilese, realizzata sui disegni di Renzo Piano, che ha nei suoi magazzini una serie impressionante di capolavori e che da anni vanta il primato di visitatori tra i musei elvetici, apre le sue porte alla fotografia! Un evento, senza dubbio. Sorpresa però all’annuncio dell’artista prescelto. Wolfgang Tillmans è infatti un nome conosciuto e riverito nell’area germanofona e nel mondo anglosassone, ma dalle nostri parti (e alle mie orecchie) suona semisconosciuto.

Motivo in più per salire a Riehen e scoprirlo, ci siamo detti. Ma ahimè la visita si è rivelata assai deludente. Non abbiamo per nulla recepito quello struggimento di cui parlano molti colleghi critici e che dovrebbe essere una delle cifre stilistiche del fotografo tedesco. Abbiamo viceversa colto una costante freddezza, la mancanza di empatia verso ciò che riprende – anche quando si tratta dei suoi più veri e intimi amici –, un’assoluta anarchia rispetto a inquadratura, toni e uso della luce: un metodo di lavoro che sembra studiato per negare qualsiasi compiacimento estetico, puntando invece su realtà (e dettagli) spesso inquietanti. Complice forse un allestimento che rinuncia a qualsiasi fil rouge (cronologia, tematiche, figurazione/astrattismo, assonanze cromatiche o ancora – e perché no? – dimensioni dei lavori esposti) e che sembra basato su una «studiatissima improvvisazione» – alcune immagini senza cornice sono appese in ordine sparso con la carta gommata – l’opera di Tillmans ci è sembrata un caotico assemblaggio di fotografie molto spesso banali e talvolta al limite del kitsch.

Una bulimica teoria di immagini volutamente scomposta, con lo stesso Tillmans a curare la sistemazione delle istantanee («Ci ho lavorato sino a mezz’ora fa», ha confessato ai cronisti accorsi al vernissage) in un percorso in cui associazioni e rimandi sono davvero difficili da cogliere. L’essenza stessa del lavoro di Tillmans ci è sfuggita. «Realizza ritratti ma non è ritrattista, ama i paesaggi ma non è paesaggista, documenta un periodo storico ma non è un documentarista» ha scritto Luca Fiore, il quale poi avverte che «per entrare nel suo mondo bisogna essere disposti a mettere almeno un po’ in discussione quel che si è sempre pensato di Fotografia e Arte». Prendiamo per buona la seconda parte della citazione: Tillmans è un artista davvero spiazzante. Ma riguardo le nature morte, quelle del nostro non reggono certo il confronto con quelle di Irving Penn, tanto per fare un nome; e i suoi ritratti non sfigurerebbero… in un album famigliare da mostrare agli amici!

Resta la parte «documentaristica» del suo lavoro, divenuto improvvisamente iconografico della scena acid house e dell’esplosione della musica techno, all’inizio degli Anni 90. Un universo che l’artista tedesco scoprì in Inghilterra, dapprima a Bournemouth e poi a Londra, dove giunse dalla natia Remscheid, in cui è nato nel 1968. Narra la leggenda che il piccolo Wolfgang s’indirizzò alla fotografia quando nella cittadina del Nord Renania Vestfalia un copyshop mise a disposizione del pubblico una fotocopiatrice in grado di ottenere ingrandimenti del 400%. Fu sperimentando la nuova Xerox che Tillmans scoprì improvvisamente ciò che non aveva mai notato prima: la texture della carta, sfumature e ombre indefinibili che schiudevano tutta un’altra dimensione del reale, e la scoperta lo spinse alla creazione di immagini. La sua è una fotografia cruda, per nulla consolatoria, che sovente se ne infischia di canoni, tradizioni, lezioni dei Grandi del passato e talvolta anche del buon gusto. Prendere o lasciare!