In ambito germanofono, Tatort è una delle serie televisive di maggior successo. Già agli esordi negli Anni Settanta, il programma aveva raggiunto un audience pari a 25 milioni di spettatori per uno share del 70%, mentre nel 2010 ben 13 episodi di Tatort figuravano tra i 15 programmi più visti dell’anno della televisione tedesca. Una tendenza confermata anche nel 2011, con un’audience di 8,5 mio di telespettatori per episodio, nonché gli anni successivi.
La serie mette a fuoco contrasti relazionali o di natura personale, ma anche spinose tematiche sociali, economiche e sociopolitiche, come per esempio l’avvenuta riunificazione delle due Germanie, gli immigranti, le comunità emarginate, dunque rappresentando eloquentemente da circa 50 anni la realtà tedesca. Al punto che il programma è stato anche oggetto di ampie discussioni sociologiche, filosofiche e letterarie. I fan di questa serie poliziesca prodotta da ARD, ORF e SRF (dal 2018 i telefilm vanno in onda anche in Italia sul canale «Giallo» con il titolo di Tatort – Scena del crimine) non dovrebbero perdere Totart, Tatort dell’attore, regista e artista multimediale tedesco Herbert Fritsch (classe 1951), in cartellone alla Schauspielhaus.
Fritsch (sue la regia e le scene, costumi di Victoria Behr, luci di Gerhard Patzeit, musica di Ingo Günther) vede il linguaggio teatrale come tramite per la sperimentazione di nuove forme di comunicazione, di cui uno degli elementi principali è la compressione del testo, che in Totart, Tatort è ridotto all’essenziale: un variegato susseguirsi di frasi spezzate, mimica, contorsioni e mugugni, nella fattispecie tutti i luoghi comuni delle serie poliziesche. Non vi è una vera e propria trama e i personaggi sono caricature.
Insomma un cortocircuito fra ironia e nonsense, una sorta di parodistica, burlesca narrazione collettiva, però di grande impatto, in particolare grazie alla straordinaria prestazione di un cast multivalente. Dopo un breve accenno della celebre sigla musicale della serie, una bionda Henrike Johanna Jörissen stile Anni Cinquanta recita una breve introduzione sempre con rimandi alla celebre sigla. Segue uno spassoso caleidoscopio di ripetizioni, variazioni, e scene poliziesche: uccisioni, cadute tanto isteriche quanto acrobatiche e altre gag: ritrovamenti del cadavere e autopsie, interrogatori e interrogativi, visite ai famigliari e arresti, in un esilarante spettacolo coreografico di commissari con o senza impermeabile, assistenti, assassini, indiziati e cadaveri.
I dieci attori sono praticamente sempre in scena, chiamati a muoversi e a contorcersi o a pronunciare le fatidiche arcinote frasi fatte tipo «dove si trovava ieri sera fra le dieci e le undici», « portatelo via», ecc. Il tutto in una scenografia a fondo blu ed effetto a specchi e con un’apertura da dove sbucano, si appendono a testa in giù o rientrano, vuoi in gruppo vuoi da soli, i dieci attori che costruiscono un’impareggiabile drammaturgia di un’ora e mezzo. Risate e divertimento e, al termine, battimani scroscianti per tutti, soprattutto, per gli eccellenti attori.