Fra tante cose che cambiano, il bar, per nostra fortuna, continua a essere quel che era: il luogo dove, spontaneamente, si fa una pausa e ci s’incontra. Ed è all’Apollo, trattoria a conduzione familiare in Corso Elvezia, a Lugano, che ho conosciuto Tarcisio Trenta. Apparteneva al gruppo degli scopisti che, nel tardo pomeriggio, si riuniva per una partita, contrassegnata da vivacissime discussioni. Con lui mi capitava di scambiare le quattro parole di rito fra assidui frequentatori di uno stesso locale. Niente di più. Finché, un giorno, Arturo, il gestore, e bravissimo cuoco, dell’Apollo, mi confidò: «Sapesse che bei quadri dipinge il signor Trenta…».
Proprio così, anni fa, scoprii la vera identità di quel giocatore di scopa: non un pensionato, in cerca di hobbies, ma un artista in piena attività, che ricava incessanti stimoli osservando la vita, e soprattutto la natura, attraverso viaggi vicini e lontani. Tutto ciò, a modo suo. Niente da spartire, a prima vista, con la figura dell’artista che coltiva un’ambiziosa diversità, che teorizza o sentenzia. E neppure con la figura del dilettante che ritrae «paesaggi da cartolina», come giustamente tiene a precisare.
Per sua scelta, è rimasto uno fuori dal giro dell’ufficialità culturale. Non un isolato e neppure un seguace di mode e correnti. Bensì un professionista che, al lavoro d’ingegnere, ha affiancato quello dell’artista, coltivando una vena creativa innata. Si sente, come racconta, «un poco figlio d’arte, mio padre, insegnante, era un bravissimo disegnatore, cugino, per via materna, di Mario Marioni, con cui ho sempre avuto contatti». A Claro, dov’è nato e cresciuto, comincia, negli anni 70, a dipingere con la tecnica dell’olio e sotto la guida di Max Laübli.
Avverte, infatti, la necessità di sottoporre un talento naturale al controllo di maestri competenti: insomma, imparare. E d’imparare non si finisce mai. Da qui, corsi ed esperienze in diversi atelier che l’aiutano a perfezionare la manualità e soprattutto a chiarirsi le idee.L’obiettivo è raggiunto, quando da pensionato sempre sulla breccia, si dedica, definitivamente, all’acquerello. Di cui si appropria, facendone lo strumento per esplorare la natura negli aspetti più diversi: nelle predilette montagne engadinesi, in Marocco, in Norvegia, a New York e via enumerando luoghi, visti e poi trasfigurati, persino astratti. Tanto da comporre una sorta di nuova topografia.
Dopo anni di un’intensa operosità Tarcisio, che è un tipo riservato, sente tuttavia, il bisogno di uscire allo scoperto per confrontarsi con il pubblico, in mostre personali: la prima a San Moritz e, poi in Ticino, la più recente a Giubiasco, si è appena chiusa, tutte ben frequentate. E, con ciò, Trenta, autocritico per natura, si trova ad affrontare anche il giudizio dei critici. A loro volta, spiazzati da un talento inatteso. Come dice Maria Will, «è difficile ragionare in termini di critica d’arte sulle opere di Tarcisio Trenta».
Un compito che, da incompetente, lascio volentieri agli specialisti.Mi limito, da semplice curiosa, a rilevare la singolarità di un personaggio che, con pudore, rifiuta la definizione di artista a pieno titolo. O forse non si riconosce nei tratti che ci si è abituati ad attribuire all’artista, oggi più che mai, impegnato a esibirsi spettacolarmente, a enunciare proclami, a sfidare il grottesco. Tarcisio Trenta, uomo di cultura, fra altro appassionato di musica classica, si trova a suo agio nella quotidianità, come avviene all’Apollo, dove molti ignorano la sua attività creativa. E a lui va bene così.