È probabile che giornalisti musicali più smaliziati e disillusi della sottoscritta riescano il più delle volte a non farci troppo caso, ma nessuno può comunque negare che l’odierna scena pop-rock presenti talune, inconfutabili ingiustizie ricorrenti, tali da provocare (almeno in chi scrive) una tangibile insofferenza. Di queste, la più imperdonabile riguarda senz’altro il fatto che troppo spesso, al di fuori della scena nazionale di appartenenza, i veri talenti compositivi finiscono per essere relegati nel mondo della cosiddetta musica indie o «underground», poiché il più delle volte l’interesse dei mass media (e, di conseguenza, del pubblico) preferisce concentrarsi sul volgare decolleté della star femminile di turno, o sulle relazioni sentimentali dei più recenti fenomeni da classifica – il che, ahimè, la dice lunga sulla superficialità dell’odierno ambito musicale.
Un caso tra i più scandalosi è quello del quarantenne cantautore americano Sufjan Stevens, il quale, dopo essersi fatto notare grazie a una manciata di dischi estremamente interessanti pubblicati nell’arco di un decennio, ha raggiunto la piena maturazione artistica con lo splendido concept album Carrie & Lowell (2015), incentrato sul suo tragico rapporto affettivo con una madre psichicamente instabile (Carrie, appunto, scomparsa nel 2012), rea di averlo abbandonato alla tenera età di un anno per poi risposarsi con Lowell Brams – oggi, ironicamente, presidente dell’Asthmatic Kitty Records, la casa discografica fondata da Stevens stesso. E se parecchie riviste specializzate hanno giustamente definito Carrie & Lowell «uno dei migliori dischi del 2015», dispiace notare come, sul versante europeo, l’album sia stato purtroppo meno apprezzato, proprio per i futili motivi citati in apertura.
Nonostante ciò, l’imperturbabile Sufjan torna oggi alla carica con Carrie & Lowell Live, attesissimo album dal vivo in cui ripercorre l’intera tracklist del suo capolavoro di due anni fa. Come suggerito dal titolo, il CD si concentra quasi esclusivamente sulle brillanti ballate che componevano il disco del 2015, concedendosi appena poche eccezioni, sulle quali spiccano il brano di apertura – una sognante e ammaliante versione di Redford, tratto dal disco Michigan – e l’inquieto e scoppiettante Vesuvius, pezzo risalente al 2010. Ma ciò che subito risalta di queste versioni dal vivo è la maestria dimostrata da Sufjan nel rivisitare le suggestioni di Carrie & Lowell: infatti, quelle che nel disco originale in studio erano incisioni acustiche dalla strumentazione molto semplice, spesso per sola voce e chitarra e, in alcuni casi, addirittura registrate direttamente con l’iPhone dell’autore, vengono qui arricchite da complessi e arabescati inserti per «full band», code elettroniche, suggestivi cori femminili e perfino qualche riverberante eco sovrapposta della voce dello stesso Sufjan; per certi versi, le singole canzoni si fanno così ancor più suggestive e delicate, poiché, sebbene gli arrangiamenti rimangano pressoché invariati, esse beneficiano della forza dirompente che, inevitabilmente, l’impostazione dal vivo conferisce loro. Ciò si nota ad esempio in brani eterei e dolenti come All of Me Wants All of You – che, oltre ad apparire più onirico e impalpabile di prima, sorprende l’ascoltatore con un finale dal sapore elettronico, in completa antitesi rispetto alla versione originale – o Fourth of July, il pezzo forse più struggente di Carrie & Lowell, al quale Sufjan conferisce una tardiva riaffermazione di vitalità davanti al dolore della morte nel momento in cui, al culmine del finale, urla «sono ancora vivo». Per non parlare di Drawn to the Blood, uno dei brani qui maggiormente contaminati dal sound elettronico, che in questo caso ne altera perfino il ritmo, facendone un motivo più uptempo.
Ma sono soprattutto tracce come la meravigliosa John My Beloved a uscirne profondamente valorizzate, assumendo una connotazione quasi epica grazie al fatto che le code strumentali abitualmente «sottotono» delle incisioni originali divengono qui, in un setting dal vivo, occasione per enfatizzare in modo intenso e struggente la forte connotazione intimista ed emotiva del materiale; come accade anche con The Only Thing – che nella seconda parte diviene un vero tripudio di fiati e percussioni – o con l’evocativa title track Carrie & Lowell. Così, se l’ascolto dell’album originale aveva messo l’ascoltatore di fronte a canzoni dalla matrice autobiografica talmente fine e vibrante da rendergli impossibile non esserne profondamente toccato, ecco che, con questo live, Sufjan compie un piccolo miracolo, riuscendo addirittura a migliorare la resa emozionale dei brani e a farne veicolo ancor più efficace per i propri traboccanti e mesmerizzanti sentimenti. E in un’epoca di musica omologata e «artificiale» come la nostra, non vi è dubbio che ciò rappresenti un trionfo degno di un vero fuoriclasse – un talento perlomeno non comune, e, oggi più che mai, meritevole di essere infine valorizzato.