Storie di successi assicurati

Dai milioni di lettori di Dan Brown a quelli della trilogia hollywoodiana, senza dimenticare un film che purtroppo non avremo mai modo di vedere in sala
/ 24.10.2016
di Fabio Fumagalli

** Inferno, di Ron Howard, con Tom Hanks, Felicity Jones, Ben Foster,  Omar Sy (Stati Uniti 2016)

Anche se le sale sembrano orientarsi sempre più verso il cinema-popcorn (un argomento sul quale occorrerà chinarsi al più presto) rimangono due ragioni per prestare attenzione a Inferno. La prima, il successo planetario che il film ha alle sue spalle, la fonte letteraria firmata Dan Brown, venduta in 80 milioni di copie. E relativa conseguenza: tre film tratti dai quattro romanzi dedicati all’ormai mitico studioso di simbologia Robert Langdon, un incasso di 750 milioni di dollari per Il codice Da Vinci (2006), 500 milioni per Angeli e demoni (2009), e certamente altrettanti per questa terza edizione, attesa dagli investitori con impazienza da sette anni.

Ma anche una seconda ragione, seppur offuscata da tutto questo ben di dio: la qualità di un regista come Ron Howard. Autore mai geniale, ma generoso e sincero, capace di rinnovarsi dai tempi di Apollo 13 con A Beautiful Mind, Frost/Nixon o lo splendido Rush. In Angeli e demoni Howard era riuscito a tradurre la complessità dei thriller alla Dan Brown assai meglio che in Il codice Da Vinci

Non è certo che la cosa si ripeta in questo Inferno. Un po’ perché il cineasta sembra impigrito nell’immaginazione; un po’ perché gli anni passano anche per il preziosissimo jolly Tom Hanks, comprensibilmente trafelato al termine delle forsennate rincorse che fanno da filo conduttore alla vicenda. Questa non è di facile trascrizione, e nemmeno di totale comprensione; cosa d’altra parte applicabile anche alla sua sorgente letteraria.

Un fatto è accertato fin dall’inizio: all’erudito dantista professor Robert Langdon, ricoverato in ospedale per amnesie poco auspicabili considerate le circostanze, spetta un compito alla James Bond. Salvare l’umanità dalle mire di un miliardario ovviamente folle: che ha deciso di risolvere il problema del sovrapopolamento del nostro pianeta immettendo un virus che la sfoltisca nella misura del cinquanta percento. 

Non stupisce a questo punto che un regista pure scafato come Howard finisca per perdersi nell’operazione. Filma Firenze, Venezia e Istanbul con il respiro strabiliante permesso ormai dall’alta definizione quand’è utilizzata in modo saggio. Poi, nel bel mezzo di un’operazione che ha certamente deliziato gli intenti promozionali della Film Commission toscana, ma con il rischio di finire su TripAdvisor, ha pur dovuto affrontare gli ingredienti di chi non può permettersi di dispiacere alla sterminata legione di lettori di cui sopra. L’elenco è lungo: esoterismo e religione, misteri ed enigmi, le sublimi terzine dantesche e l’affresco del Vasari con la sua celebre, sibillina, ma in questo caso funzionale iscrizione: «cerca e trova». Compito da risolvere in azione e thriller, senza dimenticare l’horror: che il regista traduce in improvvisi, fortunatamente quasi indecifrabili flashback.

*** El club, di Pablo Larrain, con Roberto Farías [I], Antonia Zegers, Alfredo Castro, Alejandro Goic, Alejandro Sieveking (Cile 2015)

Magistrale dimostrazione di come l’ambiguità possa essere alimentata dalla regia. Pablo Larrain è ormai da considerare fra i grandi cineasti contemporanei; cosa confermata dall’uscita, a un anno di distanza, prima di Neruda, poi della pellicola che avrebbe meritato l’oro all’ultima Mostra veneziana, Jackie. In questo El club, da una specie di casa di riposo per religiosi spretati che si rivelerà ben altra cosa, il regista cileno ottiene un ambiente che rimane impresso per sempre nella memoria.

Fra le nebbie inquiete di una costa minacciosa, immersi nell’universo musicale straniante di Arvo Pärt, ecco ecclesiastici curiosi e ambigui che, chi più chi meno, hanno lasciato alle spalle un passato di pedofilia. Per coltivare una passione più lucrativa: l’allevamento e le scommesse sulle corse con i levrieri. Non tutto emerge con chiarezza dalla sceneggiatura; forse in nome dell’importanza del non detto. Ma l’unicità di Larrain sta nel fondere la critica politica (e religiosa) in una sorta di dilagante malessere: con un’arte della regia che sconfina mirabilmente nel fantastico e nel mistero della metafora. Orso d’argento alla Berlinale 2015.