Storie di ordinario eroismo

Dunkirk trascende la retorica del film di guerra
/ 04.09.2017
di Fabio Fumagalli

**** Dunkirk, di Christopher Nolan, con Tom Hardy, Cillian Murphy, Mark Rylance, Kenneth Branagh (Gran Bretagna – Stati Uniti 2017)

Raccontata da un inglese, la storia di una formidabile quanto misconosciuta «vittoriosa sconfitta». Quella del maggio 1940, quando 340’000 soldati britannici e francesi accerchiati dalle truppe della Wehrmacht a Dunkerque, riuscirono a rientrare sani e salvi in Inghilterra. Riattraversando la Manica, grazie a un appello, lanciato ad ogni sorta di mezzo di navigazione civile.

Al suo decimo lungometraggio Christopher Nolan, virtuosistico autore di thriller fantascientifici e blockbuster di supereroi dal successo planetario non privi di qualche divagazione cerebrale (Interstellar, Il cavaliere oscuro, Inception), riesce a realizzare nel contempo la sua ’opera più compiuta. Malgrado le sue apparenze, Dunkirk non è tanto infatti tanto un film di guerra, quantoma di sopravvivenza. Una riflessione sui concetti di solidarietà o di egoismo, di coraggio o di compromesso, di sacrificio o di opportunismo: concepita senza mai mostrare il nemico, in un processo di smaterializzazione che la quasi assenza di dialoghi, la pressione incessante dei suoni e del commento musicale di Hans Zimmer, l’affidamento progressivo al potere straordinario della regia condurranno (quasi paradossalmente) a un formidabile processo d’identificazione. Lungi, però, da ogni moralismo.

Su quell’avvenimento apocalittico, la splendida sceneggiatura si è cosi costruita grazie a una semplicità esemplare. Con momenti che ignorano ogni psicologismo, ogni spiegazione superflua; tre unità di tempo e di luogo che finiranno per convergere fra di loro in una traiettoria temporale di notevole originalità. Una prima settimana ancora sulla spiaggia, con il giovane soldato Tommy perso fra l’allucinante moltitudine che, con disciplinata logicistica tipicamente british, tenterà di raccapezzarsi. Una giornata in mare, su una piccola imbarcazione privata che esce al largo per offrire il proprio aiuto. E gli ultimi quaranta minuti di carburante ancora a disposizione sul mitico, ma ancora raro Spitfire delle forze aeree britanniche; in compagnia del solitario pilota Tom Hardy.

In una sorta di accelerazione ed al tempo stesso di astrazione nei confronti del gigantesco affresco in corso, Nolan non solo armonizza quei tre piani narrativi con frequenza e concisione crescentie; ma nella fusione di quelle varie narrazioni come nell’utilizzo dei mezzi creativi a disposizione si allontana dall’aneddoto, per quanto impressionante esso sia. Senza perdere un attimo di autenticità, ma rifiutando progressivamente la banale convenzione del film d’azione.

Per sorvolare, come i suoi aviatori, l’immensa coralità dell’avvenimento; per trarne una lezione priva di retorica, un esempio inedito di cinema- spettacolo che – in un momento non privo di delicatezza per il futuro dell’immagine cinematografica – dimostra come possa essere raggiunta la partecipazione dello spettatore anche grazie alla creatività e alla intelligenza.