Difficile descrivere a parole un festival come La Bâtie. Sì, perché La Bâtie non è solamente una manifestazione fatta di spettacoli sorprendenti e magnificamente destabilizzanti; la Bâtie è anche e soprattutto un’atmosfera, uno stato d’animo. Già dalle prime edizioni, rannicchiata nell’accogliente decoro del Bois de la Bâtie (da qui il nome della rassegna), il festival ginevrino mostra il suo lato sovversivo e controcorrente. Tutto nasce da una sorta di utopia, una volontà feroce di liberare le arti della scena da un formalismo soffocante ma anche da barriere geografiche che con l’espressione artistica hanno poco a che vedere. «L’arte non ha frontiere» diceva lungimirante Victor Hugo, come a volerci ricordare che sul palcoscenico conta di più la creatività che il passaporto. La Bâtie ha fatto della frase di Victor Hugo il suo motto, la sua battaglia.
Questa nuova edizione, che ha avuto luogo dal 30 agosto al 16 settembre, è stata capitanata da un nuovo direttore, Claude Ratzé, personaggio elegante che dietro un’apparente timidezza nasconde una visione artistica ben definita. «Quando ho postulato avevo l’ambizione di affermare la missione transfrontaliera del festival e di trasformarlo in una manifestazione culturale capace di strutturare e unificare il territorio della grande Ginevra», dice Ratzé alla serata d’apertura del festival, sorta di monito a una linea politica che sembra fare di tutto per impedire che questa profezia si realizzi. La Bâtie vuole onorare i fondatori della manifestazione sviluppando ancora di più i partenariati e le collaborazioni tra le città e i comuni della «grande Ginevra».
Il Festival romando è stato in effetti il primo a proporre, 25 anni fa, una programmazione che uscisse dalle frontiere della città. Le francesi Annemasse, Ville-la-Grand o Divonne-les-Bains, passando per Ginevra e le sue innumerevoli sale di spettacolo come il Bâtiment des forces motrices, la mitica Usine, l’alternativo Théâtre du Loup o il ricercato Théâtre d’Ouchy a Losanna, hanno accolto gli spettacoli de La Bâtie permettendole di abbattere tutte le frontiere territoriali, per diventare una manifestazione faro della scena culturale romanda.
La programmazione di quest’anno è stata all’altezza delle aspettative, permettendo a Claude Ratzé di imporre la sua «griffe». Il pubblico variegato ed entusiasta ha potuto gustare opere memorabili di coreografi emblematici delle arti della scena: Jérôme Bel, La Ribot, Christophe Honoré ma anche progetti emergenti di artisti che non hanno paura di percorrere sentieri meno battuti: Laetitia Dosch, Jan Martens, Théo Mercier, Steven Michel o Alessandro Serra per non citarne che alcuni.
Grande novità di quest’anno è la sezione «kinky Bâtie», dedicata a progetti per gli over 18 che affrontano il tema della sessualità e del desiderio sotto tutte le sue forme. Spettacoli audaci e coraggiosi come 21 pornographies della sempre sorprendente coreografa danese Mette Ingvarsten, spettacolo che mette in scena la storia del porno e il ruolo del desiderio nella nostra quotidianità; o ancora Témoignage d’un homme qui n’avait pas envie d’en castrer un autre di Thibaud Croisy, esperienza singolare e sensoriale destabilizzante che interroga i rapporti di dominazione, il dolore e il piacere attraverso il teatro. La «Kinky Bâtie» si inserisce in quel movimento di riscoperta artistica della sessualità spronato da festival diventati ormai referenze come La fête du slip a Losanna o i Porny Days di Zurigo.
Tra i personaggi che hanno fatto brillare questa nuova edizione troviamo l’inimitabile Jérôme Bel, portavoce di una generazione di coreografi belgi che hanno saputo miscelare con incredibile destrezza eccentricità, umorismo e forza scenica. Per l’apertura de La Bâtie, Jérôme Bel ha deliziato il pubblico con il suo spettacolo Gala, galleria di ritratti di personaggi venuti da orizzonti molto diversi. La scena è in effetti invasa al contempo da professionisti e da amatori, essere umani variegati che portano fieramente la bandiera della «diversità». Quello che conta è l’espressione di una danza «senza qualità» come definita da Bel stesso, una danza senza giudizio, gioiosa, imperfetta certo ma anche estremamente potente. Grazie a Gala il coreografo belga interroga le aspettative del pubblico e confonde le piste mischiando momenti di eleganza formale e toccante amatorialismo. La scena diventa così una comunità capace di trasformare le debolezze in forza e l’imperfezione in estasi.
Altro momento toccante marcato da un potente misticismo è stato Rule of Three di Jan Martens. Figura libera della nouvelle vague belga (ancora il Belgio!) Jan Martens ha stuzzicato i sensi del pubblico attraverso ritmi primordiali e ripetitivi dal sapore techno che sembrano provenire direttamente dall’antro oscuro del Berghain.
Decisamente sorprendente anche Hate, ultimo lavoro della franco svizzera Laetitia Dosch, che divide la scena con un maestoso cavallo bianco. Fianco a fianco la donna e l’animale esplorano la relazione che li unisce, si cercano e si addomesticano mutualmente in un gioco tra amore e odio che ricorda una tragedia greca. Altra artista emblematica presente quest’anno a La Bâtie è La Ribot, accompagnata su scena dalla compagnia Dançao com a Diferença. Il suo ultimo spettacolo Happy Island è il risultato di un magico incontro con una compagnia di danza inclusiva portoghese.
Il tema dell’integrazione e del rapporto all’altro, amico-nemico dal doppio volto, impregna la scena in un’ode all’immaginazione, alla gioia di vivere e all’esistenza sotto le forme le più variate. Da non dimenticare infine Lorenzo Serra che ha allietato l’immaginario del pubblico con il suo Macbettu, versione in sardo della famosissima opera di Shkespeare. Con un cast esclusivamente maschile, il fondatore della compagnia Teatropersona crea un affresco di una bellezza potente e velenosa.
Insomma, molte le proposte qualitativamente sorprendenti di questa nuova edizione, a dimostrazione di quanto il festival ginevrino abbia ancora da offrire. Una manifestazione internazionale dall’animo elvetico che ci fa sentire tutti re e regine della scena.