Il primo album di Billie si chiama «When We All Fall Asleep, Where Do We Go?»


Spaventare incantando

L’incredibile caso della cantante Billie Eilish, ai vertici delle classifiche del mondo intero
/ 15.04.2019
di Simona Sala

Billie chi? No, non girate pagina quando leggete questo nome. Piuttosto, chiedete alle vostre figlie, ai nipoti, alle bambine dei vicini e ai cuginetti se lo hanno già sentito. Probabilmente sgraneranno gli occhi, increduli per il semplice fatto che avete osato fare una domanda simile (provare per credere!). 

Billie Eilish Pirate Baird O’Connell (questo il suo nome completo) non è l’ennesima cantante a scalare le classifiche grazie alla nascita e allo sviluppo di un mercato musicale parallelo, quello del web, dove a decidere cosa piace è il pubblico stesso a suon di streaming e download.

Oppure sì. Infatti Billie si è affacciata la prima volta al mondo dell’etere nel 2016, quando su Soundcloud ha sfondato con Ocean Eyes. A tre anni di distanza, durante i quali si sono succeduti alcuni singoli diventati virali come Bury a Friend e When the Party is Over, finalmente, è uscito il suo primo album in studio, When We All Fall Asleep, Where Do We Go? Il lavoro è stato accolto ovunque con una sorta di ideale standing ovation, che ha visto i critici lanciarsi in lodi sperticate (dal «New York Times» a «Rolling Stone USA», passando per il «Corriere della Sera») e una metropoli come Milano dotarsi perfino di un tram con il suo nome. Una domanda, quella del titolo dell’album – tradotta suona «Quando ci addormentiamo tutti, dove andiamo? – che da qualche parte ricalca tutto il modo di essere della giovane artista; una frase che riassume i fantasmi che Billie riesce ad evocare, nonché lo spirito complessivo di un’opera tutt’altro che facile, poiché presenta il pop come non lo avevamo mai sentito e come, con tutta probabilità, avremmo sempre voluto sentirlo.

Billie Eilish ha due immensi occhi azzurri e labbra turgide, porta i capelli tinti di bianco (o era grigio? oppure blu?) e indossa tute oversize dai colori improbabili che è lei stessa a disegnare. È affetta dalla sindrome di Tourette e ama la notte, soprattutto perché è al buio che i mostri si acquattano sotto il letto tirandoci le coperte, gettandoci in un terrore paralizzante e costringendoci a guardarci allo specchio. Le piace il buio, e tirare in ballo l’infallibile binomio eros&tanathos («Take me to the rooftop / I wanna see the world when I stop breathing, turning blue» – «Portami sul tetto / voglio vedere il mondo quando smetterò di respirare, diventando blu), adora il sangue, anzi, le perdite in genere, anche quando sgorgano da occhi naso orecchie e hanno colori indefinibili, come nell’inquietante video che accompagna la canzone When the Party is Over. Billie Eilish lascia che i ragni le scorrazzino addosso, si fa trafiggere la schiena dalle siringhe, beve un bicchiere pieno di un liquido che sembra petrolio, eppure, in mezzo a immagini per qualcuno urtanti e a un testo che non è di certo un inno alla gioia, spicca una voce che è quasi angelica, che per la sua freschezza e la sua purezza si ficca in testa e da lì non se ne va più.

Poi c’è la musica. Un mix di indie, elettronica e pop capace di trasformare ogni brano in un minuscolo viaggio, nell’etere, nei nostri sogni, nel sonno. Atmosfere rarefatte e trasognate, accordi insoliti e inattesi trasformano ogni ascolto in un’esperienza certamente uditiva e visiva, ma spesso anche tattile. 

Non è la prima volta che un artista cerchi di attirare l’attenzione su di sé provocando sensazioni forti (parte della carriera di Madonna è stata costruita sugli ammiccamenti sessuali, Lady Gaga per scioccare il pubblico, una volta si presentò con un abito fatto di vere bistecche), ma qui siamo di fronte a qualcosa di diverso, di più grande, abbiamo infatti dimenticato un particolare. Forse il più importante. Questa losangelina che si definisce una visual artist, che canta con la sicurezza di chi lo fa da anni, che recita davanti all’obiettivo come una star navigata (ma in fondo lo è, il video di You Should See Me in a Crown è stato diretto dall’artista giapponese Takeshi Murakami), che compone, che indispone, che evoca scenari onirici in cui tutti possiamo riconoscerci, ha solamente diciassette anni. Detto altrimenti, quando pubblicò Ocean’s Eyes sfondando in tutto il mondo, di anni ne aveva appena quattordici.

«My mommy likes to sing along with me / But she won’t sing this song /If she reads all the lyrics / She’ll pity the men I know» (A mia madre piace cantare con me / ma non canterà questa canzone / Se legge tutte le parole / avrà compassione degli uomini che incontrerò»), recita il refrain di Bad Guy. Maggie Baird, madre di Billie Elish che la accompagna quando gira il mondo per i suoi concerti, tutti sold out, potrà certo avere compassione del futuro compagno della figlia, ma mai si indisporrà per le predisposizioni di Eilish e per quel suo spiccato gusto inequivocabilmente dark. Insieme al marito Patrick O’Connell ha infatti deciso di non scolarizzare i propri figli, crescendoli nella libertà più totale. E forse è dovuto anche a questa decisione il legame strettissimo che c’è fra Billie e il fratello Finneas O’Connoll, cantante e attore a sua volta, che per la sorella minore contribuisce alla stesura dei testi e alla produzione dei brani. 

«Mi piace spaventare la gente e metterla a disagio, poiché anche a me piace uscire dalla comfort zone e sentirmi a disagio», ha recentemente affermato la giovane artista in un’intervista apparsa su «Das Magazin». Ma crediamo che a spaventare, più di quel gusto un po’ gore e in fondo tanto autentico, vi sia l’immensità di una ragazzina che sa quello che vuole, e fa molto bene quello che sa.